di Alessandro D’Orazio
Sull’utilizzo e la condivisione dei dati raccolti in rete attraverso l’utilizzo di App per dispositivi mobili si è recentemente aperto un impegnativo dibattito, che vede da un lato l’esigenza degli utenti nel vedere garantita la propria privacy, dall’altro l’interesse degli sviluppatori delle applicazioni nel diffondere e commercializzare il frutto del loro lavoro. Ciò che appare su Internet è infatti accessibile a tutti e, per quanto vi siano regole ben precise, informazioni, immagini e notizie di chiunque potrebbero essere utilizzate anche per scopi illeciti, in violazione di qualsiasi legge o termine di condizione. Per questa ragione è opportuno che ciascun utente sia consapevole delle conseguenze a cui va incontro utilizzando tali tecnologie, e soprattutto valutando attentamente cosa condividere sul web.
Recentemente, con la diffusione della celebre FaceApp (l’applicazione che – grazie ad un particolare filtro – è in grado di “invecchiare” le foto caricate dagli utenti), ci si è interrogati sul rispetto della normativa sulla privacy e sull’utilizzo delle immagini immesse nel sistema. Al riguardo molti esperti di tecnologia hanno sollevato seri dubbi relativamente alle informative sulle condizioni del servizio che automaticamente accettiamo nel momento in cui decidiamo di fare uso dell’applicazione e che al tempo stesso, molto raramente, abbiamo cura di leggere e comprendere.
In particolare, la policy sulla privacy di FaceApp non è visibile dall’applicazione stessa, ma soltanto sul suo sito web (che la maggior parte degli utenti non visita), e i termini della policy sono molto ampi: danno in sostanza la massima libertà di utilizzo alla società per quanto riguarda le foto, compresa la possibilità di utilizzarle per fini commerciali e di cederle ad altre aziende. Inoltre non è possibile (a differenza di altre App, come per esempio Facebook o Instagram) controllare quali tra i nostri dati siano in possesso della compagnia.
Per far fronte a tali problematiche, l’anno scorso è entrato in vigore a livello europeo il GDPR (Regolamento generale per la protezione dei dati), sebbene lo stesso stenti ancora a decollare a causa di sanzioni tardive ed esigue segnalazioni. In Europa, fino a dicembre del 2018, sono state segnalate oltre 59mila infrazioni informatiche che hanno causato una perdita di dati. Ma tre Stati (Paesi Bassi, Germania e Regno Unito) da soli rappresentano il 65% del totale delle violazioni, con una distribuzione geografica che lascia a dir poco perplessi e sintomo di quanta strada vi sia ancora da percorrere nella tutela dei dati sensibili.