Significativo messaggio di benvenuto, se non fosse per il fatto che era scritto sul telaio metallico, posto all’ingresso di numerosi campi di concentramento e sterminio nazisti, durante la seconda guerra mondiale.
Il lavoro forzato, le condizioni inumane e il finale della morte, cui erano destinati i prigionieri, stridevano grottescamente con il falso candore etico del motto, divenuto simbolo di menzogna, crudeltà e barbarie.
Ma il lavoro rende davvero liberi?
È indispensabile una riflessione globale sul senso, sul fine, sul significato umano e sociale del lavoro e diviene necessaria pensando a ciò che questa invenzione umana concede all’uomo stesso. Nella realizzazione della propria attività, l’individuo trova diversi motivi della sua esistenza e dire, oggi, che la condizione essenziale per raggiungere la felicità è l’autorealizzazione, nell’attività quotidiana, non è utopia.
Attraverso il lavoro, l’uomo percepisce l’importanza della sua opera nel mondo e trova uno scopo che non sempre si traduce in termini economici e non è affatto di questo che stiamo parlando: parliamo dell’invisibile agli occhi di molti, ma unico ed indispensabile, per la sopravvivenza psicofisica del singolo.
Croce e delizia, ma vitale per ogni essere umano, il lavoro, insieme alla capacità d’amare, conferisce equilibrio alla nostra vita individuale e sociale.
Riuscire nel lavoro significa riuscire nella vita e tutto il resto viene da sé.
Così si esprimeva Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica sul lavoro:
“Mediante il suo lavoro (l’uomo) partecipa all’opera del Creatore e, a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa” (cfr. “Laborem Exercens”).
Dobbiamo riscoprire il senso di un’attività lavorativa: che faccia esprimere il meglio di ogni persona; che sia di qualità e produca partecipazione; che dia il senso di un’azione utile e di servizio al miglioramento del bene comune; che valorizzi la responsabilità personale e sociale dell’impresa; che produca socialità e relazioni di solidarietà; che sia stabile e sicura; che dia il giusto reddito, per una vita dignitosa; che sia rispettosa del Creato e delle sue risorse, dono all’umanità di oggi e di domani.
È un’idea pazza, ma quello slogan potrebbe essere il simbolo della nuova Italia e del suo Governo che finge di riorganizzare il lavoro, il lavoro che non c’è.
Per non attraversare mai più quel cancello, al suono della marcia marziale.