di Mariavittoria Picone
Ogni volta che guardo un video di Amy Winehouse, ogni volta che l’ascolto, avverto la sua disperazione e mi verrebbe da abbracciarla. Era già successo qualche anno fa, davanti al documentario Amy, ed è successo ieri sera, guardando Back to Black: alla fine piango, non riesco proprio ad evitarlo, neanche davanti a un finale conosciuto. Sarà perché a me questa storia del Club 27, quello di Kurt Cobain, Jim Morrison, Nick Drake, Jimi Hendrix, mi ha sempre inquietata, ed è accaduto anche ieri sera, al The Space, trasformatosi in una grande casa, con un gigantesco divano, dove persone sconosciute mangiano insieme rumorosamente e commentano ad alta voce, come davanti al proprio televisore.
Amo il cinema, proprio per quel gusto un po’ nostalgico di comunità, al quale siamo stati disabituati negli ultimi anni, tanto da farci essere meno rispettosi degli altri, e anche meno tolleranti, ma inevitabilmente, più spontanei. Per cui ieri, nonostante i giudizi moralistici farfugliati, tra una manciata di nachos e una bevuta di cola, dalla coppia di mezza età seduta accanto, nonostante i commenti delle tre amiche della fila dietro, sulle acconciature e gli abiti, io, pur nel terrore che da un momento all’altro, arrivasse la signora a fianco a chiedere di spegnere tutto, sono riuscita ad emozionarmi.
Ero entrata in sala, convinta che sarei riuscita ad arrivare indenne ai titoli di coda, perché nel film non è stata usata alcuna scena reale, nessuna immagine di repertorio, è tutto recitato e, avendo già visto il documentario, ero molto prevenuta. E invece, Marisa Abela, la Amy scelta dalla regista britannica Sam Taylor Johnson, ce l’ha fatta, mi ha commossa.
La Johnson aveva ascoltato la strepitosa voce soul di Amy nei pub londinesi dove si fa jazz, l’aveva incontrata a Camden Town, il quartiere che oggi prova ad espiare la colpa di non aver protetto quella ragazza talentuosa, con murales e una statua in bronzo a grandezza naturale.
Amy aveva una voce morbida e ondulata, che contrastava con la struttura fisica, esile e rigida, aveva affidato alla musica il compito di salvarla, raccontando a tutti il proprio dolore; Love is a losing game è quasi una preghiera. Come potremmo non essere empatici con chi si mostra per quello che è? Lo so, la dipendenza da alcol e droghe è argomento ostico, non lo si può banalizzare, suscita rabbia e sconforto, non sempre lo si può ricondurre ad un’esasperata richiesta d’amore, ma l’indulgenza è dovuta a chi possiede il dono della genialità.
Alla fine, la sua voce, così potente e fluttuante, non è bastata a salvarla, non ci sono riusciti i genitori, i suoi tanti sostenitori e non avrebbe potuto neanche l’ex marito; si è sempre soli nel momento del Back to Black.