Ieri è iniziato il campionato di serie A, dopo un’ennesima estate tribolata per il calcio italiano, visto che si è svolto il processo sulle scommesse, che, in primo grado, ha visto condannate alla retrocessione tre società di categorie inferiori.
Purtroppo, il malcostume non tende affatto ad andare via dal mondo del pallone, ma, nonostante siffatte notizie di cronaca giudiziaria, è ineluttabile che il fascino del calcio rimanga invariato in un Paese, come il nostro, nel quale comunque questo sport non ha concorrenti, dal momento che gli altri giochi di squadra, come la pallavolo ed il basket, non riescono a calamitare interessi così vasti e diffusi come la pratica calcistica.
Quanto alla credibilità del nostro sport all’estero, questa purtroppo è minata, oltreché dagli scandali, dalla debolezza economica delle nostre società, finanche di quelle blasonate, che, anche quest’anno, hanno realizzato una campagna acquisti al risparmio, per cui o hanno speso meno di quanto hanno incassato dalle cessioni ovvero hanno dilazionato i loro investimenti, per cui, in virtù di condizioni favorevoli di pagamento concesse loro, esse potranno comodamente rateizzare i costi per l’acquisizione dei cartellini dei calciatori messi sotto contratto.
È ovvio che, se un tempo si diceva che il calcio italiano doveva uscire dai laboratori, perché era incombente l’ombra del doping, oggi con la medesima energia si deve auspicare che i sodalizi sportivi si rendano autonomi dallo strapotere delle banche, che – di fatto – come principali enti creditori detengono la proprietà dei club più importanti, la cui gestione è, poi, affidata al socio di maggioranza di turno, che spesso è un mero prestanome o rappresentante di patti di potere ben più ampi e radicati.
Lo scorso campionato di Serie A è terminato con il fallimento del Parma, società che, agli inizi del 2000, vinceva trofei importanti, in Italia ed in Europa.
Nel corso di questi mesi, la condizione finanziaria di molti sodalizi della massima Serie non è cambiata, per cui altre società prestigiose, almeno sotto il profilo della tradizione storica, rischieranno nei prossimi mesi di finire in modo inglorioso la propria attività, alla stessa maniera della squadra ducale.
Non è un caso se, su venti società iscritte al campionato di Serie A, stando al giudizio del Presidente della Federcalcio, solo un quarto di queste sono effettivamente in regola con le regole finanziarie, previste dal Codice Civile e da quello sportivo, a dimostrazione che, in taluni casi, è davvero una fatica immane quella dei Presidenti, che si vedono costretti a salti mortali, pur di conservare il diritto alla partecipazione ad un campionato professionistico.
È ben noto, infatti, che alcune società hanno realizzato un mercato solo in uscita, mentre ce ne sono altre che, benché avessero acquisito il diritto a partecipare ai tornei europei, non hanno potuto perfezionare l’iscrizione a tali competizioni – con una conseguente, vistosa perdita di danaro – perché non in regola con i criteri imposti dagli organismi continentali.
È giusto, allora, fare una riflessione: perché il campionato di Serie A non viene modificato nel format, ormai obsoleto, per cui se ne riducono drasticamente le società partecipanti, scendendo da venti a diciotto o, addirittura, a sedici, come era un tempo?
D’altronde, a catena, il problema dell’eccessivo numero di società iscritte si pone, anche, per le serie inferiori, in particolare per la Lega Pro, che vede il fallimento mediamente di una decina, circa, di sodalizi ogni estate, a dimostrazione che i controlli finanziari vengono, sovente, fatti solo quando, ormai, è troppo tardi per salvare dei team, che sono esposti, per lo più, con creditori istituzionali da lungo tempo.
Peraltro, non sfugge a nessuno che la principale entrata per i nostri club è costituita – unicamente, se non esclusivamente – dai proventi della vendita dei diritti televisivi, che, sebbene siano aumentati con i nuovi contratti, non possono di per sé mantenere in vita squadre, che richiedono centinaia di milioni di euro per stare in piedi e per essere competitive sul mercato, interno ed europeo.
In Inghilterra, in Germania ed in Spagna, le sponsorizzazioni ed il merchandising, invece, consentono ai club di acquisire ricchezze ben maggiori di quelle che possono introitare le nostre squadre dalle stesse attività, per cui i diritti televisivi rappresentano solo una parte e non la totalità dei loro proventi, ben più copiosi.
Se il calcio italiano non saprà seguire una simile strada, è inevitabile che esso sarà condannato ad essere di livello inferiore rispetto a quello tedesco o spagnolo o inglese, perché nessuna società della Serie A, neanche quella più ricca e blasonata, potrà mai mettere sotto contratto calciatori strapagati all’estero, come Cristiano Ronaldo o Messi.
Siamo, quindi, pronti a realizzare tutte quelle strategie, che potranno riportare il calcio italiano ai vertici europei o siamo condannati, come in altri ambiti, ad un’esistenza solo marginale?
Mentre gli organismi competenti studieranno le azioni più favorevoli, per conseguire – a breve – un simile scopo, noi non possiamo non goderci lo spettacolo, che partirà nel pomeriggio di oggi, tifando, oltreché per i colori sportivi da noi sempre amati, soprattutto per l’intero movimento calcistico nazionale, dalle cui sorti dipendono, anche, i futuri di questa o quella squadra, più o meno importante del panorama italiano.