di Pasquale Di Fenzo
C’era una volta…
Perché le favole cominciano tutte così. E quale favola è più favola della favola di Diego per noi napoletani? Quante volte ho raccontato a uno dei miei nipoti questa favola, proprio come si racconta la favola di Pinocchio, discolo e bambino allo stesso tempo. Perché questo era Diego: un Pinocchio che però diceva sempre la verità, anche a costo di fare male a sé stesso, “Nonno, mi racconti il gol su punizione alla juve, quando disse a Pecci: tu toccala che al resto penso io”. O di quando, un piccolo raccattapalle cominciò a palleggiare durante l’intervallo di una partita, con la palla che non toccava mai terra, tanto che il pubblico, estasiato da quel nanerottolo, cominciò a fischiare perché non voleva che iniziasse il secondo tempo a interrompere quella magia.
Oppure quando da bambino, già sfrontato e irriverente, dichiarò di avere due sogni: il primo era giocare un mondiale, il secondo quello di vincerlo. E lo vinse. Praticamente da solo, segnando il più bel gol della storia del calcio: “Da que pianeta venisti, barillete cosmico?”. “Comincia dall’inizio, nonno, quella è la parte che mi piace di più”. E io non mi faccio certo pregare. Era la notte del 30 ottobre 1960, e in quella clinica di Lanus, nella provincia di Corrientes, 300 km a nord di Buenos Aires, fu portata una giovane partoriente, di nome Djalma, che tutti chiamavano “Donna Tota”.
Quella notte c’erano già stati nove parti, tutte femmine. Il decimo fu un maschio. Qualcuno racconta che all’uscita dalla sala parto, la culla si fermò per un attimo proprio dove sul pavimento era raffigurata una stella e il medico che aveva fatto nascere quel bambino, disse: “Finalmente è nato un maschio, questo bambino diventerà una stella e il numero 10 caratterizzerà il suo destino”.
Leggenda o verità, che importa? A noi napoletani non interessano solo le gesta di Diego sui campi di gioco. Lo amiamo a prescindere, e poi quelle gesta le hanno già raccontate mirabilmente i migliori giornalisti, telecronisti e scrittori di tutto il mondo. A noi interessa il Diego uomo, anzi il Diego eterno bambino. quello che diceva: “voglio essere l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli”, quello che non avrebbe esitato a stoppare un pallone sporco di fango col petto e calciare a volo di sinistro, anche se si fosse trovato a un ricevimento in abiti eleganti. Il Diego che in una gelida notte di Mosca, induce le austere guardie sulla Piazza Rossa, a deporre per un momento le armi per fare una foto assieme a lui.
In campo non aveva mai reagito alle botte che prendeva. Forse capiva che gli avversari solo così potevano fermarlo. E li rispettava. Suscitava rispetto e ammirazione in tutto il mondo, dove pagavano solo per vederlo. In Italia un po’ meno, aldilà delle tante e tardive ipocrisie di questi giorni. L’assurda battaglia col fisco l’aveva vinta ed era potuto tornare in Italia da uomo libero, dopo che gli avevano sequestrato persino un orecchino con brillante.
Quanto alla droga, non l’ha mai negata. Ma non si dopava, la droga lo indeboliva, non la prendeva per migliorare le sue prestazioni. Lo criticavano per la sua vita sregolata. Noi lo perdonavamo come si perdona un figlio scapestrato. “Il mondiale l’ho vinto in Messico, lontano dal mio paese, lo scudetto l’ho vinto a Napoli, tra la mia gente!”
Ed è per questo, Diego, che ti sentiamo nostro. Più nostro. Solo nostro. E nessuno ti porterà mai via. A noi basta che tu sia esistito. Anzi, che tu esista.