La nuova esigenza sociale è quella di formare al “pensiero computazionale” fondamentale per lo sviluppo di capacità di problem solving. Vuol dire, in poche parole, che occorre pensare in maniera algoritmica, cioè trovare una soluzione e svilupparla. Risponde a questa esigenza la tendenza, tutta nuova, di realizzare dei programmi in modo semplice e creativo utilizzando la “logica ad oggetti: il coding. Imparare a programmare dà ai bambini una forma mentis che permetterà loro di affrontare problemi complessi quando saranno più grandi. Fare coding, insomma, significa imparare a programmare, e programmare apre la mente. Non si tratta di rendere fruitori i bambini e gli adolescenti di svariate tecnologie informatiche, significa piuttosto vederli realizzare ad esempio un videogioco oppure disegnare un app. Non semplici fruitori passivi di programmi informatici, ma programmatori attivi e coscienti. Il coding sta entrando anche nella metodologia delle scuole italiane, esortato anche dalla riforma “la buona scuola” ; ma non si tratta di una nuova materia bensì di una diversa prassi con cui approcciare la diade insegnamento- apprendimento.
Robotica educativa e coding possono consentire di esplorare argomenti a scuola in maniera avvincente, ‘imparando facendo’, costruendo il proprio sapere. Per far ciò occorrono programmi e strumenti adatti. Il più diffuso è Scratch: un «tool» di programmazione visuale, ideato al Mit di Boston. Esiste anche una versione «junior» per chi ancora non sa leggere (dai 5 anni); mentre per l’approfondimento da parte degli adolescenti il software si può interfacciare con il mondo fisico di altre «discipline» di frontiera: stampa 3D, hardware programmabile (tipo Arduino e Rasberry Pi), Lego Mindstorms e altro. C’è da chiedersi: ma per quelle scuole prive di strumenti e risorse (strumentali, economiche) il coding rimane un’utopia?