di Rosario Pesce
L’anniversario della morte di don Pino Puglisi, ucciso per mano della mafia, ci rimanda ad una problematica, la cui attualità non cessa mai: la lotta al grande crimine organizzato, che ormai in tutto il Paese – e non solo nelle regioni meridionali – si è radicato profondamente con la propria attività criminale.
Cosa si può fare, quindi, per combattere le mafie?
È evidente che la prevenzione deve essere sistematica, in particolare nelle grandi città dove, in molti quartieri, i ragazzi sono esposti al rischio di essere avvicinati dalle articolazioni dei gruppi e delle bande locali.
La Scuola, la Chiesa (non a caso, il riferimento ad un sacerdote anti-mafia), il mondo delle associazioni e del volontariato possono fare molto per contrastare la diffusione di fatti e comportamenti fuori legge, ma da sola l’azione di questi soggetti non è sufficiente.
È necessario che lo Stato sviluppi l’azione più qualificata possibile di contrasto contro le organizzazioni malavitose, restituendo ai cittadini la fruizione di spazi e quartieri che, invece, altrimenti sono e saranno controllati dagli esponenti del crimine organizzato.
Quanto tempo sarà necessario?
Quante risorse, umane e materiali, occorreranno per vincere la battaglia contro le mafie?
Certo è che questo è il principale obiettivo delle nostre classi dirigenti, che possono qualificare il loro operato con l’azione opportuna di contrasto al crimine, sia sul versante della prevenzione che su quello della repressione.
Il contributo portato dalle personalità, come appunto don Pino Puglisi, che hanno sacrificato la loro vita, deve essere di monito per le future generazioni: il crimine è la negazione della vita civile ed associata, per cui ogni cittadino responsabile, nell’ambito della propria dimensione di vita, può e deve offrire una testimonianza, che dia ulteriore senso anche al sacrificio fatto da chi ha esposto se stesso ed i propri familiari alle ritorsioni delle mafie.