da Il Fatto Quotidiano – foto Gettyimages
Con il barile sopra i 110 dollari, nel secondo trimestre Exxon Mobil, Shell, Chevron e Total hanno fatto profitti per oltre 50 miliardi. La prima ha generato in sei mesi un flusso di cassa disponibile (la differenza tra entrate da attività operative e uscite per investimenti) superiore a quello di Alphabet, un risultato straordinario secondo gli analisti. C’entra anche il fatto che prima del boom i progetti di spesa erano stati ridotti all’osso. Risultato: nel semestre nero dell’indice S&P 500 i dieci titoli con le migliori performance sono tutti di compagnie energetiche.
Da entrambi i lati dell’Atlantico il caro energia impoverisce le famiglie e mette in difficoltà le industrie. Ma fa ingranare il turbo ai conti dei vecchi giganti del petrolio, che tornano a gareggiare testa a testa con i big tecnologici e fanno felici gli azionisti con maxi piani di riacquisto di azioni proprie. Una rivincita a sorpresa della “old economy”, resa possibile dalla guerra in Ucraina e amarissima per chi sperava in una rapida transizione ecologica. Nel secondo trimestre 2022, mentre l’italiana Eni vedeva gli utili aumentare del 300% rispetto allo stesso periodo del 2021, Exxon Mobil ha fatto la bellezza di 17,85 miliardi di dollari di profitti superando il record di 15,9 miliardi raggiunto nel 2012 e facendo dimenticare il disastroso rosso (-22 miliardi) del 2020. Chevron ne ha registrati per 11,6 miliardi, la anglo olandese Shell per 11,4 miliardi, la francese Total per 9,8. In attesa della trimestrale di Bp, attesa per martedì, queste big four da sole hanno totalizzato in tre mesi più di 50 miliardi di utili e stando a calcoli di Reuters hanno girato agli azionisti ben 23 miliardi sotto forma di dividendi e buyback.
Ora Big Oil genera più cassa di Google – Non solo. Il livello senza precedenti del prezzo del petrolio Wti (il benchmark per gli Stati Uniti), che dall’inizio di marzo ha veleggiato in media sopra i 110 dollari al barile, insieme ai maxi rincari dei carburanti raffinati ha fatto piazza pulita di via quelli che da sempre sono considerate caratteristiche immutabili del settore. Come evidenziato da Bloomberg, Exxon ha registrato un flusso di cassa disponibile di 16,9 miliardi superando quello di Alphabet (12,6 miliardi) e tallonando Microsoft (17,8) e Apple (20,8). Considerando l’intero primo semestre, il suo flusso di cassa disponibile è stato superiore al profitto: 27,7 miliardi contro 26,3. Lo stesso è avvenuto per Shell: 22,9 miliardi contro 20.
Agli occhi degli analisti si tratta di numeri straordinari. Il flusso di cassa infatti è la differenza tra le entrate da attività operative e le uscite per investimenti: rappresenta la liquidità disponibile per pagare eventuali debiti e per remunerare gli azionisti. Visto che le infrastrutture per estrarre petrolio sono costosissime, così come la loro manutenzione, di norma le uscite per investimenti si mangiano gran parte del cash flow operativo, rendendo le compagnie meno profittevoli di quel che potrebbe sembrare a chi guarda solo i profitti. Ma nel 2022 il mondo è cambiato.
Agli azionisti 23 miliardi in tre mesi. Ma pochi investimenti – Proprio mentre i grandi inquinatori erano alle strette, chiamati ad accelerare i piani di riduzione delle emissioni di Co2 per rispettare gli obiettivi climatici, la fiammata dei prezzi dei carburanti li ha rimessi in carreggiata garantendo sontuosi profitti inattesi. Complice il fatto che nel frattempo i progetti di spesa erano stati ridotti all’osso, come lamenta da mesi il presidente Usa Joe Biden chiedendo alle compagnie di aumentare le estrazioni per tenere sotto controllo i prezzi: Exxon nel primo semestre ha destinato a spese in conto capitale ed esplorazioni solo 9,5 miliardi contro i 14,9 del 2019, ultimo anno di normalità pre Covid. Gli investitori si sono rapidamente convinti che da giacimenti e raffinerie si potevano ancora ottenere lauti ritorni, ed è andata esattamente così.
Le azioni Exxon, che nel 2021 valevano meno di 60 dollari, a fine luglio sono arrivate a 96, +68% in un anno, portando la capitalizzazione vicino ai 400 miliardi. In aprile il gruppo texano ha annunciato la decisione di triplicare da 10 a 30 miliardi il proprio piano di buyback, l’acquisto di azioni proprie finalizzato a remunerare gli azionisti. Ed è di pochi giorni fa un’analoga decisione di Chevron di destinare al riacquisto 15 miliardi contro i 10 previsti finora dopo che ha visto le proprie quotazioni sul New York Stock Exchange passare dai circa 100 dollari del 2021 a 160, più di quelle di Apple. Stessa musica per Shell, che ricomprerà azioni per 6 miliardi nel terzo trimestre dopo gli 8,5 destinati allo stesso scopo nella prima parte dell’anno, e Total, che ha messo sul piatto altri 2 miliardi per un totale di 5. Reuters ha calcolato che Exxon, Chevron, Shell e Total hanno girato agli azionisti ben 23 miliardi in tre mesi sotto forma di dividendi e buyback, più di quanto abbiano destinato agli investimenti.
Nel semestre nero di Wall Street brillano solo i petroliferi – Guadando i grafici degli andamenti di Borsa salta all’occhio che quelli dei grandi estrattori di idrocarburi hanno seguito da vicino quelli del prezzo del barile. Risultato: in quello che per l’indice S&P 500 è stato il semestre peggiore dal 1970 (-20%), come ricordato da Bloomberg due giorni fa, i dieci titoli con le migliori performance sono tutti di compagnie energetiche, da Occidental petroleum (+103%) a Apa corporation. Tra i dieci peggiori ci sono invece tanti nomi della tech economy cresciuti senza freni nell’ultimo decennio: da Netflix (-71%) a Paypal (-63%). E ancora: Meta (Facebook) nello stesso periodo ha perso il 48%, Apple il 25%, Alphabet il 24%. A luglio hanno ripreso un po’ di terreno, ma nel frattempo i giganti della old economy sono tornati con decisione nei portafogli degli investitori e difficilmente ne usciranno ora che i timori di recessione aumentano la fame di rendimenti relativamente “sicuri”.
di Il Fatto Quotidiano scritto da Chiara Brusini – 1 Agosto 2022
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