di Anna Crudo
Rifletto. Non sempre è cosa buona. Oggi rifletto su casi abbastanza personali, mentre leggo l’ennesimo post che esalta accoglienza, comprensione, umanità, scambio. E scuoto la testa, incerta. Perché poi penso a quella madre che da più di due anni fatica a mantenere un sorriso, perché la vita le ha colpito un figlio e glielo ha allontanato, perché possa essere curato meglio (si spera), dove esistono mezzi più adeguati di quelli che possono offrire due genitori.
Penso che nessuno è mai andato a trovare quel figlio, a parte, i primi tempi, un’amica. Poi il disagio ha avuto la meglio sull’amicizia. E’ comprensibile, ma fa male. Penso che raramente qualcuno la chiama per avere notizie di quel figlio e di lei stessa. Mi domando: ma che persona poco amata deve essere stata, quella madre, se adesso che ha un problema così grande i suoi amici non le stanno accanto? Forse non aveva amici. Forse è così e forse non lo aveva realizzato, fino a quel giorno in cui un’ambulanza ha portato via il figlio.
O forse queste situazioni sono troppo perfino per gli amici, perfino per la famiglia. E io capisco il perché: lavoriamo tutti tutto il giorno e saltabecchiamo a destra e sinistra, per finire stremati a dormire, la sera. Nel fine settimana la voglia di distrarsi da questa vita impossibile ci assale, ci assale la voglia di chiuderci nei nostri bozzoli familiari o di vagabondare, ridere, tenere leggera la testa.
Il pensiero di un genitore con il cuore a pezzi, che si isola perché si sente in difetto, nemmeno ci sfiora. Non è cattiveria. Non ce la si fa. Sono sicura che alla madre importa meno della propria solitudine, di quanto, invece, le sarebbe importato che gli amici e i compagni di scuola di un tempo, avessero regalato qualche minuto, un paio di battute, un sorriso, a quel figlio. Sapendo che sulle prime non sarebbe stato facile avvicinarlo.
Perché si vergogna, perché non vuol mostrare la propria fragilità e allora si sente di merda e gli viene da sparire, o da farsi del male, o da comportarsi in un modo che sa perfettamente che è sbagliato. Ma ancora non ce la fa a innescare un circolo virtuoso. E la lontananza dal mondo in cui dovrebbe stare non lo aiuta di certo. La cosa più grande sarebbe proprio che i suoi simili gli mostrassero di accettarlo, con tutti i suoi limiti, senza giudizio.
Ricordandosi di quanto loro stessi, in misura per fortuna minore, abbiano a volte pulsioni che non capiscono, pensieri che gli ingombrano la vita e voglia di sparire in una goccia di pioggia, o di fare i matti con qualcuno per sentirsi amati. A volte perfino un genitore intelligente e sensibile fatica a tollerare l’amicizia tra il proprio figlio e un ragazzo problematico. Siamo tutti pronti ad indicare ai nostri figli i vincenti e presentarglieli come esempi fulgidi.
Nessuno di noi riesce più ad avvicinare i nostri figli a qualcuno da aiutare e meno fortunato di loro e a insegnare un valore perduto, anche per gli adulti: la compassione. Il senso che aiutare qualcuno aiuta anche noi stessi a comprendere i nostri limiti e a farcene una ragione, ci insegna la fiducia verso gli altri e accresce la nostra autostima, ci fa sentire utili, bravi, migliori. Ecco, io penso, oggi, a quella madre e ad altri genitori come lei. E’ come se vedessi me stessa nei momenti più bui del mio cammino di mamma e le voglio bene e oggi la porto al cinema.