di Alfredo Carosella
Avviso ai lettori: questo articolo contiene un numero imprecisato di citazioni.
Cominciamo dal titolo, che vuole essere una trasposizione del cartesiano “Cogito ergo sum”: penso quindi esisto. A quanto pare, di pensatori e pensieri ce n’è sempre meno in giro, tant’è che è sempre più diffuso l’uso di condividere parole altrui sui social network, evitando la fatica di usarne delle proprie.
Spero che non appaia contraddittorio annunciare un articolo infarcito di citazioni e poi accanirsi contro chi usa le citazioni senza esprimere un pensiero proprio: ciò che vorrei provare a dimostrare è proprio la possibilità di esprimere un’idea o un’opinione personale pur prendendo in prestito parole altrui.
Il fatto è che, a volte, la condivisione di una citazione colta può avere effetti esilaranti, come quando si menzionano parole che non sono mai state pronunciate dal personaggio illustre al quale vengono attribuite. Oppure quando è proprio il personaggio ad essere frutto della fantasia, come il “celebre” filosofo Eracleonte da Gela. Trattazione a parte meriterebbero le profonde riflessioni sul senso della vita, accompagnate da foto scollacciate e fisici palestrati.
Perché si pensa sempre meno? Alcuni studi scientifici evidenziano una diminuzione del quoziente intellettivo medio, frutto – a quanto pare – di una diminuzione dei vocaboli usati e della semplificazione del linguaggio utilizzato. Meno parole e meno verbi coniugati, portano a un pensiero confinato nel presente, poco capace di proiettarsi nel futuro, nonché alla difficoltà di esprimere compiutamente un’emozione. E “le emozioni sono tutto quel che abbiamo” (Youth, Paolo Sorrentino, 2015).
A peggiorare la situazione ci si mettono: le contrazioni delle parole, come ad esempio xchè, anke, ke, TT, Tvb, compreso l’acronimo inglese LOL e le sue storpiature trolol, lolwut e via dicendo; l’introduzione di termini inglesi che hanno un equivalente in italiano, come : green pass, jobs act, spending review, folower, corner, briefing (gli esempi potrebbero essere innumerevoli); l’uso degli emoji (qui viriamo verso il Giappone): simboli pittografici che dovrebbero indicare l’emozione o il sentimento che stiamo provando e che portano ad una ulteriore semplificazione del linguaggio, pur consentendoci una comunicazione universale e meno soggetta a fraintendimenti.
Ci sono infine le parole usate in modo equivoco, come “amici” e “condivisione”, che portano allo smarrimento del significato originale dei termini usati.
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” (Palombella rossa, Nanni Moretti, 1989).
Ecco, quindi, che stiamo passando dal “penso quindi esisto” al “critico quindi esisto”, perché qualcosa dovremmo pur dire in questo immenso salotto virtuale che sono i social network. Chiedo scusa, ho usato di nuovo un’espressione inglese!
Assistiamo a un progressivo e forse inarrestabile degrado della comunicazione, allo scambio di offese indicibili su qualunque argomento, alla nota condivisione di notizie false (sì, è vero, volevo scrivere fake news).
Si critica chiunque, persino un Premio Oscar e Leone alla carriera che dedica il suo ultimo riconoscimento alla moglie, compagna di vita da quaranta anni, ma “colpevole” di non aver citato Borges e Nabokov. Non è che Benigni debba piacere a tutti ma è triste constatare come stia sparendo la capacità di sorprendersi ed emozionarsi, il cinismo col quale c’è chi rifiuta di credere a un amore eterno, alla gratitudine, alla condivisione – questa sì autentica – di una grande gioia.