di Rosario Pesce
Nell’epoca della rete e dei collegamenti, che sono in grado di mettere in relazione ambienti e territori molto lontani fra di loro, è ovvio che la cultura non può trovare la sua giusta diffusione senza un adeguato piano della comunicazione.
Sembra quasi che la comunicazione abbia acquisito un valore ontologico, per cui il messaggio c’è se viene comunicato, l’evento culturale esiste se viene opportunamente diffuso: altrimenti, la cultura diviene mero esercizio solipsistico e, come tale, perde qualsiasi dignità.
È ovvio che una siffatta reificazione di cultura e comunicazione comporta degli indubbi vantaggi, ma presenta qualche insidia.
Scrivere e leggere per comunicare è essenziale allo scopo di divulgare, di rendere gli individui informati, di conoscere e portare a conoscenza nuovi mondi, altrimenti destinati all’oblio.
Ma, è altrettanto vero che la sola divulgazione non è – di per sé – una garanzia: il messaggio culturale, perché possa essere duraturo e significativo, deve essere cogente, apportare una novità, essere foriero di un cambiamento dell’esistente.
È sempre così?
È ovvio che la moltiplicazione delle fonti e dei messaggi, informativi e formativi, non sempre costituisce un fattore di qualità degli stessi.
La società odierna si costruisce su un’ipertrofia comunicativa e questa deve essere l’occasione, per tutti, per essere parte di un dibattito che coinvolge invero l’umanità intera, chi in modo razionale e consapevole, chi – invece – in maniera inconsapevole ed immatura.
Ed, allora, prepariamoci a coniugare sempre meglio i significati con i veicoli ed i mezzi della comunicazione, perché nel prossimo ventennio l’innovazione tecnologica creerà le premesse per cambiamenti ancora più profondi rispetto a quelli dell’ultimo decennio, di fronte ai quali sia coloro che saranno nativi digitali, sia coloro che non lo saranno, devono farsi trovare pronti, se non vogliono rischiare l’esclusione sociale e l’isolamento non certo poetico e produttivo.