di Elio Goka
Voi davvero credete che sia tutto finito? State a sentire quello che in “Napoli milionaria” dice Eduardo quando, tornato dalla guerra, smentisce quelli che sono convinti che sia tutto finito, che hanno dimenticato le bombe, i rastrellamenti, le spie, i ricoveri, il coprifuoco, la fame e la miseria. Se Radio Londra risuona ancora nelle orecchie degli speranzosi finiti dentro i ricordi dei sopravvissuti, Gennaro Jovine, tranviere disoccupato, inutile per i tedeschi e improvvisatosi manovale per sopravvivere nella prigionia, porta con sé i verbali di una verità che quasi tutti oggi preferiscono ignorare.
“’O mumento è triste… P’ ‘e paise addò so’ stato io se sente ancora ‘o cannone ‘a vicino… ‘E bumbardamente tuorne tuorne continuatamente… ca io vi giuro sono rimasto ca si sento sbattere na porta, mi si gela ‘o sango dint’ ‘e vvene. E mi sono trovato…”
Non si perde occasione di interrompere chiunque tenti di raccontare quello che nessuno vuole ascoltare. Pure Gennaro Jovine non ha trovato facile ascolto quando è tornato dagli orrori di una parola che, se sopravvive, non fa che chiedere un po’ di silenzio. Pure dalla Gorgone di Primo Levi sono tornati muti o ciechi. Non si può dire a quelli come Gennaro Jovine che la guerra è finita, che adesso si sta tranquilli, che non c’è più niente di cui preoccuparsi.
“Vuie pazziate? ‘A guerra non è fernuta… E non è fernuto niente”
E li vogliamo dare per consolidati dentro gli usi e gli abusi delle retoriche intellettuali, ahinoi, i moniti di Berlin, Dumont e Golding (alcuni dei pensatori che hanno “certificato” la violenza senza precedenti del Novecento) sulla infinita brutalità di un secolo da tanti uomini“vissuto quasi per intero”, e che adesso si è trasferito, altrettanto “quasi per intero”, in quello nuovo, sempre con l’idea che sia finito tutto, che non c’è più nulla di ci preoccuparsi? Niente affatto, perché se sfuggiamo ai quei doveri di presunta pedanteria di comodo, in silenzio sfuggiamo a quelli di platea sporadica, imprevedibile, scomoda e accomodante, davanti a quelli come Gennaro Jovine, che, di tanto in tanto – non avviene così spesso – chiedono udienza bonaria per raccontare quello che hanno visto al fronte o di quello che hanno visto addosso agli uomini vissuti per mesi dentro un buco. Rimasti in pochi, con le mani tremanti, la voce e il pensiero che non si sintonizzano sulle frequenze frivole delle chiacchierate del dopomodernità. Che parlino di guerra o di altri argomenti, quasi nessuno vuole ascoltarli più.
È un genere difficile quello di chi invece ascolta, conserva la soggezione e se ne sta un poco di tempo a disfare vizi e capricci, convinzioni e certezze, fino a quel momento cuciti bene in un vestito di stracci da svestire dinanzi a tutto quello che fa paura soltanto perché non si conosce, ma che funziona come armatura, per difendersi da questa nevrosi dell’invasione. E pensate che le Quattro giornate di Napoli siano finite? Quelle di Gennaro Capuozzo e di Raffaele Marfellasì, dentro le medaglie e nelle celebrazioni. Le Quattro giornate dei soldati del “Regno”, dei ribelli napoletani, delle depresse smancerie nostalgiche della Napoli ancora affezionata ai ricordi borbonici, delle madri che nascondevano i figli sottoterra, dentro i cunicoli segreti della città cava, vuotata dalla natura prima ancora che dalla storia, dei manifesti nazisti e degli attacchini infelici, delle case sventrate e delle sue sezioni abitate durante e dopo l’occupazione. Quelle Giornate sono finite.
Lo scrive pure Eduardo nella sua Napoli milionaria che “Lo sbarco alleato è avvenuto. La casa di donn’Amalia Jovine ha un volto di linduria e di sciccheria fastosa”. La metropoli babilonica ha rielaborato la guerra e l’inconsapevole eroismo dei suoi abitanti rinvigoriti dalla disperazione. Ma sono pure tornati tutti i Gennaro Jovine. E quelli dove li mettiamo? Avrebbero voglia di raccontarci che il mondo non è stato lasciato come promesso, che altrove qualcosa continua e nel peggiore dei modi, che la Gorgone è ancora affollata e che nessuno sa quanti ne torneranno, che il pensiero avrà ancora bisogno di appellarsi ai tormenti documentati e verbalizzati dai Berlin, dai Dumont e dai Golding.
Come nelle suggestioni mitologiche, nella Napoli di oggi si combatte ancora. Senza suggestioni, in altri luoghi nemmeno così lontani accade quello che Gennaro Jovine sta cercando di dire da una vita. Nessuna opportunità di sentirsi o di ergersi a ribelli. Sarebbe un insulto fraintendersi in un’epoca già così piena di fraintendimenti. Ma sentirsi ancora in tempo per prestare ascolto, almeno una volta, a Gennaro Jovine reduce dalla prigionia. Quello sì.