Dunque, le cose stanno così.
C’è un telecronista di calcio, di comunissimo nome e impegnativo cognome, tifoso della Lazio. Ed è, in linea di principio, cosa buona e giusta: nulla di male a lasciar trasparire, con classe e discrezione, una preferenza che rende uomini di emozione e di passione. Peraltro, nello specifico, in linea con l’esibito romanocentrismo calcistico del servizio pubblico (si fa per dire). Meno coerente con un codice deontologico di minimale decenza è sbandierare con pacchianeria crassa e linguaggio da trivio appartenenze e radici con foga da ultrà, con intento divisorio da fomentatore di violenze.
In verità nell’esercizio delle funzioni, facendosi scudo del supporto tecnico (si fa per dire, bis) di turno, lo speaker ammicca, ironizza, manifesta sublime godimento o inopinata depressione a seconda di contesti di gioco, azioni, segnature. La semifinale di andata tra Lazio e Napoli, terminata 1-1, complice il commento competente (si fa per dire, ter) di un ex campione vero che stupisce si sia piegato a questa manfrina, lo aveva dimostrato: “pareggio del Napoli, tutto da rifare”, con tono funereo, due o tre ottave sotto la squillante, speranzosa esaltazione per la marcatura della squadra del cuore.
Questo, e molto altro, non sfugge a Maurizio de Giovanni, cesellatore di emozioni, esegeta recente della passione vera, sana, unificante, fatta di condivisione, identità, memoria, che costruisce unità, senza picconare blocchi “ideologici” contrapposti, che non istiga ad altro che all’amore, che custodisce valori culturali, storici, antropologici, prima che sportivi.
Dal suo abituale spazio, situato sulle colonne del principale quotidiano cittadino, de Giovanni, all’indomani della partita, demistifica, eludendo qualsiasi giro di parole, la presunta ecumenica imparzialità del servizio pubblico: mette in discussione senso e valore del pagamento del canone, stante il tono imbarazzato e compassato (a fronte di trionfalistici furori precedenti) che postilla il progressivo incremento di rendimento del Napoli. Il fatto è che De Giovanni è, prima di tutto, un intellettuale, conosce l’arte sottile e difficile della ricostruzione, pratica la tecnica complessa e scomoda dell’interpretazione: “fa” opinione, orienta pensiero e idee di chi lo legge. Rappresenta, trasversalmente, una porzione debordante di tifosi perbene e di cittadini liberi.
Questo alla Rai non va giù: dopo quell’articolo di epocale dirittura morale, de Giovanni viene di fatto, con editto di bulgaro tenore, epurato. Ma nemmeno al dipendente rai va giù, a De Giovanni l’addetto alle telecronache gliela giura.
Ma è sul social che l’impiegato rai fa il leone da tastiera. E già all’altezza dell’11 marzo, come la documentazione fotografica dimostra, parla di “asserviti che si fanno pubblicità per vendere libri”. Nessuna prova che il suo target sia de Giovanni, per carità. Ma il cadavere del nemico, diremmo noi, adda passà ‘a cheste vie. E infatti passa. Come l’ultimo avventore di un bar di periferia, prima di esplodere si accerta della propria posizione di forza. Attacca soltanto dopo che la Lazio ha eliminato il Napoli (tutto sommato meritandolo, di questa professione di obiettività lo stipendiato rai in questione si meraviglierebbe, immagino). Il demone della dietrologia che alberga silente in me mi rende certo che, a risultato invertito, il nostro (il Loro) avrebbe tenuto ben stretta la coda tra le gambe e osservato mortificato e schiumante silenzio a sopire cotanto rancoroso magma.
Con squallore di linguaggio degno di miglior causa, o di miglior rissa, il salariato rai intraprende una personale battaglia contro un nemico ignoto: “i mezzi scrittori, i pennivendoli e i neo masanielli”; e ancora “le prime filastrocche arrivano, aspettiamo i pennivendoli”.
Senza fare nomi, ovviamente. O per evitare querele, o perché, diceva don Lisander, “il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”. E noi onoriamo l’opportunismo di cotanto bellicoso guerriero. Senza fare nomi, ovviamente. Condividendo, per contiguità ideologica, questa pratica brada e vile con chi espone, che so, striscioni pelosamente e penosamente allusivi senza indicarne chiaramente il target.
E invece facciamoli, i nomi. Marco Lollobrigida – I repeat: Marco Lollobrigida, tarantolato da un’estasi mistica che lo spinge a sbroccare in tutte le direzioni, si risveglia dalla sbornia da finale conquistata e sforna, forse ancora impigiamato, un piccolo capolavoro: “stamattina non leggo di mezzi scrittori, o esibizioni di giornalismo stercorario, strano, o forse no, i vigliacchi tornano nell’ombra”. Chapeau. Si potrebbe discettare sull’utilizzo improprio di “stercorario”, del quale si conosce lo scarabeo, ma facciamo grazia della disquisizione all’improvvido Lollobrigida. De Giovanni replica da par suo, con la calma serenità di chi padroneggia il linguaggio perché ha visione del mondo salda, ferma, autocosciente: “Che dire? Il mezzo scrittore ribadisce che per fare il mestiere di giornalista, stercorario o no, servirebbe un po’ di obiettività e qualche capacità professionale. Per questo ha scelto di fare il mezzo scrittore: così per dire quello che pensa realmente non ha bisogno di nascondersi dietro la veste di telecronista della televisione pubblica, che dovrebbe essere la più serena e obiettiva. Complimenti vivissimi: a posteriori ha confermato la perfetta verità di quello che avevamo rilevato tutti quanti”
Ma il re, er re de noantri, è nudo. Incassata la risposta di de Giovanni, fomentato dal branco, dispensa insulti a destra e a manca, blocca chiunque – come il sottoscritto – provi a spiegargli come il linguaggio lo qualifichi come uomo tra gli uomini, prima ancora che come operatore dell’informazione (si fa per dire, quater). E qui arriva la perla.
“Lina Miele scusa, ma ti blocco, sei troppo brutta, mi metti paura”. Lina Miele, che ho la fortuna di annoverare tra le mie “compagne di vita”, minuta, bellissima dentro e fuori, colta, brillante, decisa, tostissima; in definitiva, una donna. E Lollobrigida, definito dalla Miele “giornalisticchio”, abito che pare aderirgli come una guaina, nonché ottimo pendant di “mezzo scrittore”, le vomita addosso un distillato di fasciosessismo d’altri tempi, una ostentazione di virilità di stupro che apre scenari da delirio. Molto ci sarebbe da discettare sull’isterica ingenuità dell’uomo, evidentemente in gap di autocontrollo, dimentico della valenza pubblica di insulti vomitati con tale vigliacca (ecco, ora sì: vigliacca) protervia.
Perché è sulla sua credibilità pubblica che bisognerebbe interrogarsi. Sulla sua imparzialità – non equidistanza, che è altra e più servile faccenda, dico imparzialità – . Se sia in grado di commentare, chiosare, postillare, le fasi salienti di una tappa del giro della Capitanata o i piatti più gustosi della Sagra dell’asparago di Guardiagrele.
Magari, chissà, una parola forte verrà dall’interno dell’ambiente. Non come dissenso occasionale, per quanto degno e forte (e si è già letto molto in queste ore), ma come presa di distanza istituzionale, come censura professionale, come, soprattutto, condanna umana. Chissà. Resta l’insulto, ultima spiaggia pubblica per chi è disavvezzo a qualsiasi dialettica, per chi è interessato a qualsiasi produzione ulteriore di senso come effetto di posizioni contrapposte. L’insulto, che non macchia chi lo riceve, ma infama chi, dal pulpito abusivo di una posizione pubblica, lo pronuncia, non senza qualche impaccio linguistico e ideologico: “chi parla male pensa male e vive male”, diceva quel tale in quel film.