di Anna Iaccarino
Ho sempre amato le fotografie, da piccola spesso le tiravo fuori e le riguardavo ogni volta per riviverle con occhi nuovi. Mi piaceva proprio questo, il poter scorgere in tempi diversi un dettaglio sfuggito, un’emozione dimenticata. Le foto come piccoli dipinti che, a colori come in bianco e nero, possono essere quelle visioni magiche che profumano di sogni. Non hanno bisogno di parole “dette”, ma “parlano” in silenzio e lasciano meraviglia. Quel bloccare un momento di vita, un successo, un dolore, una lotta, un’esplosione di gioia.
Il fermare per sempre ricordi, vibrazioni provate, scorci di natura, luoghi dell’anima.
Noi, accompagnati dallo scorrere del tempo.
E nell’ottica di una lettura alternativa, fuori dalle righe, la fotografia vista come la sequela di tante attese in successione, ognuna delle quali, immaginaria promessa in divenire. La foto come un marchio stampato di un’attesa che si ripeterà ogni volta attraverso la magia di quel flash, fino a idearne la follia di tramutarsi ancora. Tutto un lavoro di indotta fantasia, per chi vuole ricercarla, che mi ha permesso di approcciarne il fascino e dilettarmi a immortalare, per il solo piacere e da perfetta neofita dell’arte fotografica, attimi d’incontro per le strade della vita. Ma soprattutto di farmi innamorare della parola “attesa”, vista nella più generale estensione di sé.
L’attesa, questa parola evanescente che nel suo corpo d’astrazione forse incarna, paradossalmente, i momenti più belli dell’esistenza umana. Sicuramente l’essenza più libera e visionaria, perché senza il peso di doverne mantenere l’obbligo di resa. Può essere fulminea, breve, lunga, può durare tutta una vita, ma col tempo ho imparato che può insegnare anche tante cose. A partire dal suo valore. Si, perché l’attesa ne ha e più di uno, pur distinti in molteplici diversificazioni.
Un involucro dal contenitore apparentemente vuoto, in realtà pieno di qualcosa di prezioso, quella cosa che si spera o che si tema, accada, una sorta di arrivo in stato di allerta. L’accompagnamento a saper aspettare, non come mera passività ma come virtù incamerata, come capacità di resistenza alla congiunzione di un qualcosa di là da venire. L’attesa, quindi, non come l’apoteosi della pazienza, ma come quel distendersi in una condizione di stacco da lasciare andare a uno stato di grazia, che non demorde e non si arrende, talvolta neanche di fronte all’imponderabile, perché in taluni casi, finanche scudo di sopravvivenza per una vita.
I suoi punti d’essere variano e corrono da una direzione all’altra, possono volgere all’aspettativa di un successo, di un traguardo, di una conquista o ritorno d’amore, così come alla fine di una paura, di un’ingiustizia, di un dolore.
L’attesa, come proiezione in sospensiva di noi, come quel tempo che incarna il passaggio dall’evento (in corso di divenire) alla consumazione di esso, dalla prospettiva agognata o temuta alla realizzazione concreta. Il periodo in cui si “viaggia” in quel tempo di mezzo che la mente individua come prima della venuta del futuro. Attendere un lavoro, una casa, la risoluzione di un problema, senza che la vita “di dentro” muoia, ma che, al contrario, ne tragga linfa vitale. Aspetto che la rende, per questo, diversa da tutta la dimensione temporale, trasformandola da “vuoto” di parola in “pienezza” di stati d’animo. Come quel qualcosa che può consumare, ma anche innescare forza interiore reagente, vivacità intima capace di dissodare quelle ombre insistenti che guarderebbero all’indietro.
Appartenente anch’essa alla grande famiglia del tempo, viene però incasellata negli spazi interstiziali, ovvero in quelli non classificabili, non concettualizzati, fuori dalla rilevazione di aree precise. Per questo oggetto di materia di studi ad alta analisi sociologica, che non vuole essere il costrutto narrativo di questo scritto, finalizzato invece ad un affronto a solo carattere discorsivo del tema, nonché di compartecipazione di sensazioni e pensieri.
L’attesa, con le sue tante anime di letture. L’amica silente, ma fedele. La compagna di viaggio senza voce, ma che aiuta a tenersi in piedi. Arte da coltivare, ma che in un’epoca del “tutto e subito”, appare oggi una delle condizioni vissute con maggior disagio, se non con più solitudine di assolo. Punto esistenziale che tocca un po’ tutti, sebbene attraverso la diversificazione delle mille soggettività del “sentire”.
Una delle prime differenze sulla sua percezione e su cosa possa lasciare è sicuramente riconducibile alle modalità e ai luoghi in cui la si vive. Un’attesa che dimora tra lo scoccare delle ore nelle proprie mura o nella costante di pensieri legati al solo tessuto intimo, è fortemente “lontana ed altro” dal silenzio assordante di stanze d’ospedale, dove non c’è spazio per il vociare, men che mai per rimembrare o sognare.
Dove l’attesa è direttamente connessa alla paura per la propria salute o a quella, spesso ancor più devastante per la difficoltà a doverla gestire di nascosto, di un proprio caro.
Come per tutti noi, nel corso delle varie fasi di crescita, ho avuto modo di viverne dei passaggi diretti che si sono poi rivelati ritorno di grande ricchezza umana. Soprattutto attraverso la conoscenza di quegli uomini e donne nella cui presenza si leggeva tutta la drammaticità della propria attesa.
Maestri di vere e proprie lezioni di vita, volti che trasudavano voglia e forza, oltre ogni limite della malattia, e te ne facevano dono chiedendo in cambio solo l’auspicio di un augurio. Corpi stanchi e consumati che continuavano a brillare di luce propria, di sorrisi che guardavano avanti e di cui, ancora adesso, ricordo la dolce melanconia, fieramente difesa, dei loro sguardi di speranza in sospeso di orizzonti.
L’attesa, quindi, che almeno a me lascia l’idea di una sorta di messa in pausa dei passi in cammino di vita, da cui imparare ad alimentare la capacità di resilienza, a gestire l’ansia di riempimento con la temporaneità del “saper attendere”. Capendo che non significa non saper essere o fare, ma poterlo essere o divenirlo, poi.
Trasformando così, un momento di difficoltà o semplicemente di stasi, in opportunità di riflessione, in atto “dedito” verso sé stessi. Cullandosi in un’immagine di bellezza che renda l’attesa un “fermo immagine” non più da spettatori ma da possibile protagonista.