di Elio Goka
Amava il gioco del biliardo. Lo amava non soltanto come gioco, ma come struttura. La pedagogia paterna lo aveva condotto a contemplare il panno verde dentro i confini segnati dalle sponde che sarebbero poco a poco diventate quelle dei sentimenti. Per i sentimenti.
“Di stecche da biliardo ce ne sono di due tipi: di legno e di alluminio. Io preferisco l’alluminio. Oddio, la stecca di legno ha più cuore, più anima, è più passionale, sanguigna. Infatti quando colpisci la palla con la stecca di legno senti che fa: Toc. Si sente che è un toc più toc. Capito? Mentre la stecca di alluminio sta lì, è più fredda, non ti dà troppa confidenza. Sta lì e ti guarda ma soprattutto pensa: vediamo questo icchè fa! Però se riesci a conquistarla non ti molla più. Per spiegarti meglio: la stecca di legno ha il suo cuore, mentre quella di alluminio vuole che il cuore ce lo metta te.”
Io, Chiara e Lo Scuro
Amava il biliardo. Fino a una trilogia cinematografica in cui mille altri film non sarebbero comunque bastati per stabilire con esattezza le misure di quello spazio in cui il luogo della vita si serve di biglie, buche e birilli per disegnare le traiettorie della vita che fino allo sfinimento si cercano di tradurre in geometria. Tutta la fisica della sensibilità. Tutta nel formulario da cui scaturiscono azioni e combinazioni, lì sopra, tra un colpo e un effetto. Perché lì sopra corrono le cose dell’esistenza, una per una, laddove nessuno sa cosa rappresenti più fedelmente quello che ci riguarda. Se la palla, il colpo, il birillo o la buca, e a chi vada il punto per decretarne vittoria o sconfitta.
Francesco Nuti mi ha colpito da bambino. Guardavo i suoi film e c’era qualcosa che in anticipo coglieva quello che un dopo erroneo e adulto avrebbe incontrato su altri sentieri. L’inciampo e la caduta come decifrazioni minime e silenziose di quello stadio muto e stretto in petto della vita. A giocare seriamente con tutto quello disposto casualmente sopra il tavolo di biliardo. A tentare di leggere le posizioni illudendosi di aver colpito nella maniera migliore possibile. Sì, i sentimenti presi di sponda. Quelli incompresi e quelli compresi fin troppo profondamente. Radenti il fondo di quell’abisso sondabile a pochi e di materia fragile e delicata. Al limite del percorribile senza che alcun passo non risparmi un’orma indelebile e il solco dell’addio non pronunci il suo mai più con la sua più struggente delle solitudini.
Francesco Nuti mi ha sempre ricordato alcuni versi provenienti da altri poeti. Su tutti quello di un grande poeta, Pierluigi Cappello, che nel suo componimento Parole povere scrive:
Una esce di casa coprendosi un occhio con il palmo
mentre con l’occhio scoperto piange.
Sì, quell’immagine sembra scritta per Francesco Nuti. Almeno per come l’ho sempre immaginato e sognato io. Che con una mano si copre un occhio e con quello scoperto piange tutta la sua commozione attraverso un sorriso appena accennato e chissà quanto colmo di una nostalgia segnata da abbandoni e smarrimenti provenienti da un luogo in cui nessun colpo sarebbe in grado di sistemare le biglie secondo perfetta armonia.
L’occhio libero a confessare, a dolorosa rivelazione di un se stesso per il quale l’occhio coperto, invece, pensa a come sarà quando il tavolo da biliardo sarà coperto con sotto le biglie, le buche e tutto il resto. E allora, solo in quel momento, la mano che copre l’occhio potrà liberarsi per dire che l’unico colpo desiderato non era quello che avrebbe potuto escogitare il diretto interessato, ma soltanto chi avrebbe saputo volergli bene. Quando ero bambino e guardavo i film di Francesco Nuti, c’era una cosa che mi persuadeva e che ancora, oggi ancora di più, continua a persuadermi. Davanti a me vedevo qualcuno che desiderava la cosa più semplice e difficile di questo mondo: essere voluto bene. Un colpo da una stecca che non avvitiamo noi.
Adesso quella mano ha lasciato l’occhio e fa come ha scritto Gianmaria Testa in una delle sue canzoni più belle:
Dentro la tasca di un qualunque mattino
Dentro la tasca ti nasconderei
E con la mano, che non vede nessuno
E con la mano ti accarezzerei
E con la mano, che non vede nessuno
Con questa mano ti saluterei