di Giosuè Di Palo
Su la7 va in onda la nota trasmissione Non è L’Arena di Massimo Giletti. L’argomento della serata è la guerra in Ucraina. Inizia il programma, Massimo Giletti inviato speciale a Odessa, nel cuore della guerra.
Le luci sono pronte, il set pure, e inizia lo spettacolo. La narrazione è, come sempre, sopra le righe, eccessiva, sembra di assistere a Live Non è la D’Urso. Fra insistenti autoreferenzialismi e retorica spicciola il programma prosegue e scivola inesorabilmente nel baratro dello sciacallaggio quando Giletti, con fare insistente, si avvicina al cadavere ridotto a brandelli di una soldatessa e fa gesto alla telecamera di riprendere meglio e, come se non fosse ormai chiara l’immagine, dice “questo è il corpo dilaniato di una ragazza!”
Prosegue la necrofilia televisiva e autorizzata di la7 con immagini di cadaveri di militari in una caserma colpita da un missile perché, come afferma stesso lui, “la gente deve sapere”. Come se nessuno sapesse come funziona la guerra e che rischi comporta, ma ci fosse a tutti i costi bisogno di guardare gli organi di un cadavere per capirlo. E, se la gente deve sapere, allora vai con le foto agghiaccianti senza censura, metti due frasi shock fra i sottotitoli, scuoti l’opinione pubblica per alzare di due punti lo share e autoelogiati in prima serata.
Lo spettacolo a cui ho assistito è veramente il punto più basso del giornalismo di casa nostra . E questo non perché la guerra non vada raccontata, anche con crudezza, sia chiaro. Ma perché credo che ci sia un senso della misura in tutto, anche nella narrazione dei fatti e nella scelta quantomeno opinabile di mostrare quelle immagini.
Un senso di pudore, di rispetto nei confronti di parenti di vittime che si ritrovano magari in televisione il cadavere della figlia sbattuto in faccia a milioni di altri telespettatori. Il dolore va raccontato, ma va fatto tenendo per mano chi guarda, Va trasmesso in televisione, ma con coscienza. E a chi dirà che un giornalista va comunque rispettato se fa reportage nei luoghi della guerra dico solo che questo non è giornalismo, ma un’agghiacciante spettacolarizzazione del dolore autoreferenzialista e a tinte necrofile.