Benché a mente fredda, tornare a Kiev non è salutare. L’occasione era ghiotta, eppure nonostante rabbia e delusione non si affievoliscano, si deve avere la forza e il coraggio di guardare avanti, oltre.
La sconfitta, per quanto cocente e difficile da digerire, va necessariamente accantonata e superata. La cicatrice ucraina resterà vita natural durante, ma l’esistenza di uno sportivo in tutte le sue sfaccettature e da tutte le prospettive, deve necessariamente fare i conti con gioie e dolori.
È una condizione logica e naturale che appartiene all’essenza del tifoso, da qualsiasi latitudine esso provenga.
Lo sconforto e l’amarezza sono reazioni ovvie dopo una partita persa, a maggior ragione se si tratta di una semifinale europea e se a certi palcoscenici non si è abituati. È qui però il punto di cesura, lo spartiacque che il tifoso napoletano deve superare, per iniziare una crescita che a questo punto risulta determinante e non più rinviabile. Fatte le debite proporzioni, il tifoso bavarese che negli ultimi due anni si è visto umiliare da Real Madrid e Barcellona in semifinale, non avrà certamente gioito, ma è facile pensare che abbia la consapevolezza che l’anno successivo potrà riprovarci.
Da De Laurentiis bisogna pretendere chiarezza sul futuro, un’organizzazione societaria da club importante, in tutte le sue componenti (organigramma, stadio, settore giovanile, rosa) e la certezza che Kiev-Varsavia non restino un caso isolato e diventino un’abitudine.
Io ci credo e il mio non è becero ottimismo, né un subdolo tentativo di fuga dalla realtà e da Kiev. Io ci credo, perché se si analizza il percorso del Napoli post-ritorno in A, la crescita nazionale e continentale è stata costante. Una stabilizzazione tra le migliori in ambito italico è un dato incontrovertibile; in Europa si è vissuto a sprazzi, toccando vette altissime, l’ultima delle quali deve rappresentare il punto di partenza da cui ripartire. A mancare è stato il famigerato salto di qualità, quel mix brioso fatto di fantasia, entusiasmo e razionalità, ma soprattutto una reale volontà e capacità.
All’interno di questo discorso, la riflessione sulla guida tecnica assume un rilievo tutto particolare. La scelta di ingaggiare un tecnico di caratura internazionale, quale Benitez, poteva sicuramente essere interpretata come lo snodo della storia recente del Napoli. L’intenzione, che sembrava sottesa, era quella di dare continuità agli anni, certamente entusiasmanti, di Mazzarri, alzando nel contempo l’asticella delle ambizioni. Benitez recava con sé un indiscutibile bagaglio di esperienza internazionale e appeal mediatico, utile in un mercato della comunicazione globalizzato. Tutti gli indizi conducevano a delle prospettive interessanti, e squadernavano la vista su una futura proiezione nell’Olimpo del calcio mondiale. Un’aspettativa, questa, alimentata anche dagli acquisti, che accompagnarono l’avvento dello spagnolo: basti pensare alla colonia di ex merengues, che costituisce l’ossatura del Napoli targato Benitez. La scorsa estate invece il mercato deficitario e privo di colpi importanti e funzionali al gioco del tecnico castigliano, con una squadra uscita finanche indebolita, ha costituito una evidente frenata del percorso. Le cause di una stagione con troppi bassi e pochi alti, al netto delle responsabilità grosse di tecnico e giocatori, vanno ricercate nel mercato estivo e in quel clima di sfiducia che si è creato nell’ambiente, trovando poi terreno fertile nel post-Bilbao. Forse Benitez poteva prendere una decisione forte sin da Dimaro, ma è facile pensare che dietro le scelte di un tecnico, ci siano mille fattori, non solo di carattere pecuniario, che incidano e che coinvolgano anche tesserati a lui strettamente correlati. Forse Benitez poteva abdicare alla pazza idea di arrivare fino in fondo su tutti i fronti, e puntare un solo obiettivo, magari più realistico e meno soggetto agli episodi (con il Dnipro, quelli di natura arbitrale, sono stati decisivi).
Senza volerci inoltrare nei meandri di questa stagione (lo faremo a pallone fermo, visto che c’è un terzo posto da conquistare), la scelta dell’ ‘europeo’ Benitez ha rappresentato forse il famoso ‘passo più lungo della gamba’, da parte di una società che non ha saputo adeguatamente accompagnare l’arrivo di un tecnico dall’indiscusso valore. A questo punto la sua eventuale ri-conferma, con un contratto almeno triennale, potrebbe segnare una reale svolta. Al contrario se con Benitez si dovesse giungere al divorzio (consensuale o meno che sia), si aprirebbero nuovi scenari. Si potrebbe far uscire dal cilindro un nome di pari livello o comunque di stampo europeo, e quindi parimenti continuare un determinato progetto. Con un nome meno ‘esotico’, si rischierebbe un doppio passo all’indietro, ma potremmo calarci in quella che è poi forse maggiormente la nostra dimensione, trovandoci tutti maggiormente a nostro agio. L’ultima affermazione non vuole essere un attacco, né una polemica, né una difesa ad oltranza dell’ ‘europeismo’, ma un’asettica presa di coscienza di una realtà oggettiva. Magari un tecnico meno intellettuale e inflessibile, più sanguigno e italico, potrà anche risvegliare l’imborghesito tifoso del Napoli dal torpore in cui è caduto.
A questo punto ci ricolleghiamo all’inizio di questa nostra analisi e al tifoso che deve e può tornare a credere e ad entusiasmarsi, come nei primi anni della rinascita post-estate 2004 e nelle prime due stagioni targate Mazzarri e tre tenori. È un discorso che faccio in primis a me, i buoni piazzamenti degli ultimi anni (mai scesi sotto il quinto posto), i tre trofei (su 12 dell’intera storia azzurra) portati a casa, non devono accontentarci, ma neanche possono rappresentare una sorta di alibi e un ostacolo invalicabile, oltre qui non è concesso entusiasmarci. Se solo 2-3 stagioni addietro fossimo stati in piena lotta per il terzo posto, avremmo avuto lo stadio pieno, in città ci sarebbe stato un clima diverso; non è possibile che la fame del tifoso napoletano debba fermarsi allo scudetto o a quella maledetta serata ucraina, né voglio credere che 4-5 anni di buon livello con gli annessi exploit, possano svuotare il tifoso o averlo saziato così tanto che ora l’unico piatto scelto sia il tricolore o la vittoria a tutti i costi. Riassaporiamo il gusto ancestrale e genuino in primis del legame con la squadra della nostra città e quindi dei successi, delle vittorie, dimenticando i conflitti e le fazioni, le antipatie e le simpatie personali, le promesse, solo in parte, mantenute del presidente. A questa squadra, proprio come a noi, manca questa ‘semplicità’, questa fame, questo legame viscerale. Mi pesa dirlo, ma la squadra senza colori ha, così come i suoi apolidi tifosi (apparentemente un controsenso), su questo aspetto (e non solo) da insegnarci tanto.
Mancano tre partite alla conclusione, in ballo c’è il terzo posto e la musichetta che tanto amiamo; uniamoci a coorte, Napoli chiamò…