di Alessandro D’Orazio
Un movimento che già dopo le dimissioni di Luigi Di Maio come capo politico e il passaggio dall’alleanza con la Lega a quella col PD, aveva messo in luce una serie di evidenti contraddizioni, oltre ad un numero crescente di dissidenti interni; l’ultimo dei quali è stato il dimissionario Alessandro Di Battista, nella cui figura è probabilmente sintetizzata la parabola discendente che sta attraversando il M5S in questi ultimi anni.
L’era dei meet up e dei Vaffa day è ormai un ricordo lontano. Il passaggio dalla piazza ai palazzi del potere è stato forse il vero problema che ha segnato il movimento. Nel corso dell’ultimo decennio infatti le promesse e i proclami urlati dai palchi sono stati tanti e diversi, ma quanti sono stati realmente mantenuti? Chi avrebbe dovuto aprire i palazzi del potere “come una scatoletta di tonno” si è dovuto scontrare con le rigide strutture organizzative dei partiti, anch’esse retaggio di quella impostazione del potere tanto biasimata quanto reale.
“Il partito ha un gruppo di poche persone che decide tutto per tutti, le liste elettorali, le nomine, i programmi, i supporti elettorali nelle diverse città. Nel Movimento invece il potere si esercita dal basso e si trovano tutti i modi per garantire la trasparenza e la condivisione delle scelte tra gli iscritti”, affermò Gianroberto Casaleggio. Ma a questa acuta riflessione si è risolutamente contrapposta la realtà di tutti i giorni, fatta di difficoltà e scontri: dal dibattito sull’efficacia del Reddito di Cittadinanza al drammatico caso dell’Ilva di Taranto (definito da molti il “funerale politico del M5S”).
Alla fine dei conti l’impressione più nitida è che il frequente cambiamento di pelle del movimento non abbia prodotto nè la distruzione della tanto vituperata casta, nè il perseguimento degli antichi ideali su cui i 5S costruirono le loro più grandi fortune.