Negli ultimi tempi si è registrato un incremento dei bambini con disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) e di bambini iperattivi. Sembra che il numero sia addirittura triplicato rispetto agli ultimi cinque anni e la cosa sta spaventando non poco sia i genitori che i docenti, ma anche soprattutto i neuropsichiatri. Si sta registrando, quindi, negli ultimi tempi anche una controtendenza, cioè disconoscere e rinnegare le difficoltà di alcuni bambini con la paura di tacciarli di disagi che nella realtà non ci sono. Si sta rischiando, dunque, di fare una grande confusione tra la necessità di diagnosticare determinati disagi e determinate difficoltà e la paura, invece, di diagnosticarle laddove non esistono.
La paura è quella di rendere i docenti delle figure medicalizzate, che in qualche modo tendono a ricondurre ai disturbi specifici dell’apprendimento ed alla iperattività, difficoltà che un tempo sarebbero rientrate in una semplice definizione di vivacità. Dunque, si sta verificando che alcuni neuropsichiatri ed alcuni terapisti delle ASL e di centri specializzati avanzino l’idea che la rilevata difficoltà all’apprendimento evidenziata dai docenti non incontri la diagnosi di DSA. È davvero così o si rischia invece di ridurre di nuovo l’ attenzione nei confronti di queste difficoltà e di questi disagi e vedere nuovamente i bambini abbandonati a se stessi? Ci sono docenti che raccontano difficoltà enormi nel portare avanti le loro lezioni, perché i bambini sono fortemente disorientati e bisognosi di uscire continuamente dall’aula. Raccontano di bambini che non riescono ad avere una sufficiente capacità attentiva e raccontano anche che non hanno il sostegno delle ASL nel vedere riconosciute le DSA specifiche. Premesso che il criterio principale per fare una diagnosi di DSA è quello della “discrepanza” tra le abilità nel dominio specifico interessato e l’intelligenza generale (tenuto conto dell’età delle attese in relazione all’età e della classe frequentata), bisogna fare riferimento a diversi fattori sia per gli esperti che devono fare una diagnosi e sia per i docenti che devono tradurre ciò in interventi didattici. Occorrono test standardizzati e occorre la valutazione di condizioni diverse (ambientali, socioculturali, etnico-culturali, e valutazioni tese ad escludere eventuali menomazioni sensoriali e neurologiche).Occorre –come si è detto – evitare il falso positivo, ovvero soggetti a cui viene diagnosticato un DSA ed era riconducibile ad altri fattori, e di contro il condizionamento che nella diagnosi possono determinare condizioni socio etnico-culturali tali da dare un falso negativo. Come si può evitare, dunque, di fare confusione? Innanzitutto tenendo conto del fatto che la dislessia, la disgrafia e la discalculia sono disturbi che possono manifestarsi insieme o isolatamente, associarsi a difficoltà di linguaggio, motorie o dell’attenzione e cambiare le loro manifestazioni nel tempo; sono cioè disturbi che richiedono di essere monitorati nel tempo da specialisti, perché sono disturbi che possono migliorare o peggiorare nel corso del tempo ed in base alle difficoltà crescenti di apprendimento. Va tenuto conto anche il fatto che il bambino con DSA vive un senso di inadeguatezza a scuola, di disistima, di ansia che solo un docente può concretamente attestare, confermare e ribadire nel corso del tempo. Un rimando di competenze e di accuse tra specialisti del settore neuropsichiatrico e psicologi e terapisti con i docenti, o uno scetticismo delle famiglie nei confronti dei docenti che sollevano e portano alla luce certi disagi, non fanno altro che rallentare o allontanare la giusta e tempestiva diagnosi. I bambini hanno solo bisogno che qualcuno si accorga dei loro disagi ed hanno altresì bisogno che una sinergia di persone (genitori, specialisti, terapisti e docenti) migliorino la qualità della loro vita garantendogli il diritto alla personalizzazione didattica e valutativa, oltre ogni scetticismo e preconcetto di sorta.