di Mariavittoria Picone
Una delle ultime scene del celeberrimo “The big chill”, film che ho amato infinitamente, ha come protagonisti Kevin Kline (Harold) e Mary Kay Place (Meg) che fanno l’amore perché lei possa finalmente avere un figlio, che la sua condizione di single, tanto impegnata nella carriera professionale, fino a quel momento non le ha consentito di avere. Così, Glen Close (Sarah), per amicale generosità, le presta il marito (Harold) per il concepimento. In realtà lo fa anche per saldare i conti, per pagare il tradimento consumato qualche anno prima con Alex, l’amico morto suicida; del resto, molte dinamiche sentimentali si basano su bilanci razionali.
La scena dell’amplesso da adolescente mi lasciò molto turbata, poiché in quegli anni associavo ancora all’amore un’idea di esclusività, che poco dopo ho compreso non esistere: né l’amore esclusivo, né l’amore incondizionato. Fanno l’amore due amici, sì, non fanno sesso, non incastrano i corpi con freddezza, ma si uniscono per gioia.
Detesto l’uso del verbo scopare, non mi piace, è triste ed ipocrita. Lo si usa per distinguere l’atto tra persone che si amano e quello tra due che si desiderano sessualmente, ma è solo un termine per alleviare il senso di colpa di chi dichiara di amare qualcuno e poi desidera unirsi fisicamente con un altro, o di chi non vuole impegnarsi in una relazione.
È amore anche il desiderio, anche quello che chiamiamo attrazione sessuale, ma questo argomento merita un approfondimento che non dedicherò in questa sede.
Il corpo sa tutto, il corpo è tutto. Il nostro corpo è espressione del nostro sentire e non è estraneo all’anima, ma è un tutt’uno con essa. In fondo, anche Platone riteneva che non ci fosse una netta divisione tra corpo e spirito, anche se viene comunemente ed erroneamente ritenuto un cultore dell’anima e della sua formazione, in contrapposizione alla vile materia. Egli stesso riteneva che attraverso il corpo, che è pregno di anima, si forma e si cura lo spirito, non a caso, da lui ha origine l’espressione “partorire idee”, verbo quantomai opportuno in questa sede. Fittare una parte del proprio corpo è ridurre se stessi ad un mero oggetto, è un abominio.
L’utero in affitto non è una conquista, è una recessione allo stato di schiavitù ed è opportuno che questo processo involutivo venga regolato giuridicamente. La legge serve ai più deboli, per evitare che il soggetto più forte, in virtù della propria superiorità economica o del potere psicologico che ha sui poveri e sugli incapaci, disponga degli altri come meglio crede.
La legge serve per evitare gli abusi di potere, per proteggere chi non è in grado di difendersi autonomamente, ergo, non può consentire che una condizione economica disagiata possa portare a scelte drastiche e dannose per l’equilibrio psicologico.
Altro sarebbe se, liberamente, senza alcun prezzo, una donna decidesse di prestare il proprio corpo per amore.
Le coppie omosessuali che desiderano un figlio possono ricorrere ad altri istituti, l’utero in affitto è espressione della più alta forma di egoismo e disumanità.
Mi piacerebbe che si potesse estendere a tutti il diritto all’adozione, che invece è espressione di grande altruismo e generosità, questa sarebbe una battaglia condivisibile.
Non è necessario arrivare al “regalo” di Glenn Close all’amica, ma trovare un’alternativa al commercio del corpo si può.
Promuovere l’utero in affitto è spacciare per progresso la mercificazione del corpo.
Quasi quasi rivedo Il Grande Freddo, che tra l’altro ha una colonna sonora meravigliosa, a cominciare da “You can’t always get what you want” dei Rolling Stones, magari adesso adopererò una nuova chiave di lettura.