- di Mario Piccirillo
Ci sono volute tre stagioni di faccine, smorfiette e bronci perché l’Occidente si liberasse di Dana Brody. Appena un attimo prima che buona parte del pubblico adulto di Homeland, per disperazione, si arruolasse per l’Isis. Poi Showtime s’è redenta in una rara epifania autocritica, trasferendo nelle due successive annate il tema della sofferta genitorialità all’altra protagonista. Troppo tardi. Perché nel frattempo la rampolla Brody ha tradotto in sé anni e anni di adolescenti più o meno spacca-maroni, sparpagliati un po’ a casaccio in giro per la tv seriale. Se ne è fatta rappresentante, riassumendone tutti gli aspetti fisico-psicologici.
Erano già in mezzo a noi, in verità. Ci sono sempre stati. Li trovate a tutti i livelli di tv, e magari ognuno di voi s’era preso in appunto di bruciare il motorino al suo preferito, prima o poi. Chessò… Astor&Cody? Zach&Grace? Bridget&Con? Carl? L’altro Zach?
Ma visto che il Domenicale è un posto di gente figa, possiamo provare ad alzare il livello dell’analisi, e studiare il fenomeno nel suo insieme: la perversione preterintenzionale degli autori di infestare con figli (pre)adolescenti – problematici, sensibili, il più delle volte scassaminchia a gratis – show altrimenti solidi a prescindere. @mick_foley (una specie di sensei dei teledipendenti) l’ha definito “Danabrodismo”, e sì, ora potete anche dare un volto a quella sensazione di fastidio indefinito che vi coglieva inaspettatamente alla visione delle vostre serie preferite: Morgan Saylor.
Attenzione, non parliamo di teen drama, del palinsesto CW pervasivamente posizionato nel mercato dei poster da cameretta. Quello è uno standard che, al netto dell’endemica orticaria da Dawson Leary, ha una logica, una platea con una sua dignità di marketing autoriale. Quello è il loro campionato, glielo lasciamo, ci mancherebbe. Qui invece ci preme affrontare una specie di invasione silenziosa. Come se un’intera generazione di personaggi in età scolare fosse stata travasata a capocchia in un mondo asincrono che poteva il più delle volte farne tranquillamente a meno. Producendo così ore e ore di storyline sprecate e quasi sempre fuori fuoco. Poveri figliuoli spesso scritti male, tagliati con l’accetta dei cliché americano-centrici, tra ragazze piagnucolose e apatiche, e quarterback idioti e superficiali.
Dana Brody c’aveva pure i suoi motivi, non discutiamo. A quell’età s’incazzano se il papà non gli presta la macchina al sabato sera, figurarsi se a casa ti torna, dopo otto anni di nulla, un marine-terrorista chiaramente scemo (tradire Morena Baccarin con Claire Daines… no, dico!). Ma le infinite parentesi d’approfondimento familiare incentrate sulle tribolazioni della giovine cosa hanno dato a Homeland? Meglio: quanto gli hanno tolto? E alla nostra pazienza? E Chris? Il fratellino Chris, non era pure lui figlio di cotanto padre nonché maschio pubere? Dov’era il sadismo degli autori quando distribuivano i bronci? Eh?!
Il punto è proprio questo: è il contesto che fa la differenza, non è questione di repulsa personale. Al di fuori degli stilemi preconfezionati del teen-drama il fruitore medio si ritrova tra i piedi uno strambo universo disegnato sulla pretesa di rendere al meglio il realismo dell’età della crescita. Un’inversione di tendenza bella e buona, se nel frattempo gli show generazionali, inseguendo l’evoluzione degli studi di gradimento e di aspettativa, hanno presto cominciato a sostituire la mera registrazione del presente adolescenziale con tutto quello che l’adolescente vorrebbe essere o che crede di dover essere. Con un fuso orario tutto sballato, in una versione accellerata della vita totalmente posticcia: almeno cinque anni di precocità riscontrabile praticamente in tutti i personaggi under, che sia cinema o tv. Perché c’è sempre un autore adulto che parla e agisce nel corpo dell’attore, che ne è solo l’ospite stereotipato. I produttori di Skins, ad esempio, si vantavano di avere “membri dello staff creativo che saltano i meeting di sceneggiatura a causa di interrogazioni o esami al college”. Introducendo così il concetto che ci vuole un ragazzo per scrivere realisticamente il personaggio di un ragazzo.
Paradossalmente, invece, inseriti nell’estetica delle serie adulte, i character più giovani hanno assunto il ruolo di rassicurante punto fermo ideale: ai ragazzini i problemi (e le reazioni) da ragazzini, perfetta cornice per il plot portante, il mondo adulto con tutte le sue perverse esagerazioni. O al più, hanno finito per prestarsi al lavoro sporco, usati a piacimento per tirarci dentro – a noi spettatori – con la leva dei sentimenti. Cioè: facile odiare king Joffrey, vi vedo tutti a fare air-guitar sui suoi rantoli di commiato da Game of Thrones.
Ma il giochetto di sottoporvi i patimenti di Carl, costretto a dribblare gli zombie di The Walking Dead invece di andare al parco con mamma e papà, beh, funziona sempre. O vorreste dirmi che il dolce sguardo corrucciato di Zach, in The Strain, con i vampiri alle calcagna, non vi fa odiare un po’ meno il padre che non riesce a convivere con la calvizie (questa, se seguite anche House of Cards, vi arriva tra un po’)? Questi, per l’appunto, sono casi evidenti di Danabrodismo doloso: il teenager è presentato come vittima degli eventi, bravo guaglione, nemmeno troppo molesto. Acquattato nel plot con il preciso scopo di abbassare il livello della tensione allo stadio viscerale. Con il risultato, infame, che mentre il mondo viene aggredito dagli strigoi, dobbiamo sorbirci SuperPeterRusso che perde tempo prezioso a cercare mammina. E se poi, quando la trovano, mammina secerne dalla gola 8 metri e 40 di creatura sovrannaturale, al piccolo va bene pure così. Roba che per poco il papà non ci rimette il parrucchino, e lo spettatore il televisore nel tentativo di abbatterlo con una ciabattata.
E’ la gratuità del ricorso al fanciullo che nuoce gravemente alla tenuta della trama, insomma.
In principio furono, a occhio, Astor&Cody. Anzi solo Astor. Introdotta nella vita di Dexter con l’evidente proposito di gettare le fondamenta per la rovina successiva dello show. La bambina viene fornita completa di infanzia già rovinata dal precedente compagno della mamma, per cui sacrificarla come tranello emotivo per instillare dubbi morali al nostro vecchio serial killer vien da sé. Nel corso della serie da bambina passa ad adolescente semi-ribelle senza che gli autori si sforzino mai di trarne un minimo profitto per lo sviluppo della storia. Svaccando infine con la morte violenta della mamma, e così confinandola di fatto nel limbo dei personaggi troppo abusati per farne alcunché. Rieccola la domanda: Astor e quall’altro lì… Cody, cosa hanno regalato alla complessità della serie? Servivano? O più semplicemente: piacevano a qualcuno?
E’ come se non ci fossimo ancora accorti che oltre alla famigerata “quota tette” esistesse una sorta di “quota bimbominkia”, trasversale ai generi e assolutamente rispettata anche sui canali meno family.
L’utilizzo tattico dei giovani come sfondo della storia dei grandi è un automatismo pigro, un po’ come l’ ”F4…basito” degli autori di Boris. Prendete Ray Donovan. Una serie trascinata dall’evidente carisma degli interpreti (Jon Voight, Elliot Gould, Liev Schreiber, Eddie Marsan e molti altri, quasi tutti), che insiste sulle carambole morali della Famiglia Donovan, brava gente ma anche no. E’ chiaro che Conor e Bridget, sballottolati tra l’agio economico della bella gente losangelina e il machismo culturale di una famiglia semi-criminale irlandese, finiscano fisiologicamente al centro del palcoscenico. Eppure, ogni volta che “Bridge” sbatte una porta o “Con” pesta un compagno di classe, lo spettatore passa a fare zapping, ché magari becchi Mastrota che vende i materassi e ti svolta la serata. Perché, nel bordello generale di una serie stilisticamente tarantiniana, i due ragazzini vengono relegati alle vicissitudini più scontate. Par di vederli, in writers room: “Bridget è una secchiona, come facciamo incazzare il padre? Mmm… mumble mumble… ce l’ho! S’innamora di un rapper nero ragazzino sbagliato!”. Eccoli, F4… ragazzina ribelle per amore. Automatico.
Ray Donovan vale a introdurre un altro comodo stratagemma: l’uso di sponda del teenager per sottolineare, per riflesso, l’immaturità della società adulta. La famiglia Donovan è un disastro, i figli servono a ribadirlo, a caricare il peso del deficit di responsabilità sulle spalle dei grandi. Se ce lo diciamo tra di noi, che facciamo pena, non fa male. Se ce lo dicono le reazioni del fanciullo, allora sì: televisivamente parlando lascia il segno. E’ il caro vecchio senso di colpa indotto, colonna portante di ogni vita sbagliata che si rispetti e di millemila trame seriali. Persino in The Affair, la nidiata del protagonista maschile (Noah, interpretato da Dominic West) assolve al ruolo monodimensionale che serve ad introdurre il terreno di coltura della complicata relazione extramatrimoniale che sta per svilupparsi. I bambini casinari, ma soprattutto Julia Goldani Telles nei panni della figlia maggiore: una teenager insopportabile fatta con lo stampino, tra l’indolenza, un pizzico di lolitismo e l’immancabile tendenza all’anoressia dietro l’angolo. Nel livello già molto alto che si intuisce sosterrà lo show, un tratteggiamento così trasandato si nota ancor di più.
Il fatto che in giro ci siano poi dei fuoriclasse capaci di eccepire tutto ‘sto polpettone che stiamo teorizzando non fa altro che confermare, come da regola, il senso del discorso. Perché ci sono i King su questo pianeta, e se ne facciano una ragione, gli altri. Zach e Grace restano una traccia fragile di The Good Wife. Ma The Good Wife fa un altro sport, e quindi i termini di paragone non reggono. Per dire: avrebbero potuto prendere i figli di una coppia così complicata come Alicia-Peter Florrick e tradurli sventatamente nei classici figli di papà (e mammà, in questo caso) in perenne conflitto coi genitori che abusano del risentimento filiale per fare danni. E invece. Zach (Graham Phillips) cresce come un gigante assieme allo show, sbriciolando i luoghi comuni del genere integrato com’è – con la sua maturità, onestà e intelligenza – nelle fitte dinamiche in cui ogni tanto la vita degli adulti lo risucchia. Idem Grace (Makenzie Vega) a cui prima tocca il gradino della ribellione, virata però presto con una inedita infatuazione religiosa. Idea geniale che in un lampo riabilita tutti i momenti di scontro mamma-figlia, regalandogli un livello di lettura in più. Non tanto per la questione religiosa in sé, quanto per la lavorazione sofisticata della costruzione del rapporto, con le incomprensioni intrinseche ai ruoli che si fanno via via smussate e intriganti.
Volete odiarli i fratellini Florrick? Ok, allora poi non lamentatevi se nel 2014 “dagli autori di Homeland” vien fuori una roba come Tyrant. Ve li siete cercati il liceale spaccone e la sorella che – usasse ancora – passerebbe la giornata a fare i cuoricini sulla Smemo. Wait… il ragazzo è gay. E nemmeno il tempo di sbarcare in piena dittatura mediorientale che trova il suo omologo arabo: occhiatina d’intenti e via… Di corsa a recuperare le 6 stagioni di The Good Wife dietro la lavagna, subito!
E’ il caso di apprezzare lo sforzo quando c’è. Nel fantastico mondo del Danabrodismo se uno mille ci prova e forse ce la fa, va premiato. Ché là fuori c’è gente pagata per mettere insieme una roba così, tutti a darsi il cinque alto pensando di aver scritto la nuova “serie che ha sconvolto l’America”. Là fuori c’è brutta gente, capace di cancellare Bunheades e dare spazio agli sguardi affilatissimi di Charlie Matheson, eroina-cacacazzi di Revolution, sperando che i dinosauri di Terra Nova pasteggino a fratelli Shannon il prima possibile. Là fuori, infrattato da qualche parte, c’è l’intero cast di 7th Heaven. Altro che Dana Brody, signora mia.