Il primo turno delle elezioni amministrative ha prodotto uno scossone, che potrebbe essere confermato dall’esito del ballottaggio.
Infatti, l’arretramento del PD è stato più che evidente, in particolare nelle grandi realtà metropolitane, dove il voto di opinione si è orientato, ineluttabilmente, contro il Governo in carica.
Infatti, visto il numero di persone, che sono andate al voto e data l’importanza delle città, che sono state coinvolte, il test di domenica scorsa non è stato meramente di rango amministrativo, ma ha una valenza che coinvolge gli equilibri politici generali, tanto più nelle immediate prossimità di una verifica di fondamentale importanza, quale sarà il referendum costituzionale del prossimo mese di ottobre.
Renzi, ora, si trova di fronte ad un bivio: o andare avanti, fingendo che non sia successo niente, o prendere atto che la situazione è mutata e che non si può governare un Paese, complesso come il nostro, in assenza di una classe dirigente che possa, almeno, amministrare le grandi città, come Milano o Roma o Napoli o Torino.
Appare ovvio che, procedendo per tal via, lo stesso Presidente del Consiglio debba, inevitabilmente, fare un’analisi molto attenta di quanto, finora, fatto: molti momenti legislativi, compulsati dalla sua maggioranza, hanno incontrato il dissenso di quella fetta di pubblica opinione, che si riconosce in un’area progressista diversa da quella renziana.
Quindi, è suonato il campanello di allarme per il Premier, il primo davvero qualificante da quando è a Palazzo Chigi.
Non si può, infatti, notare che il crollo di consensi del PD sia coinciso, questa volta, con una netta sterzata del Paese verso i candidati espressione dei Movimenti anti-sistema, da Grillo alla Lega, a dimostrazione dell’esistenza di un ampio disagio sociale che esiste verso chi, negli ultimi due anni e mezzo, ha avuto la responsabilità di guidare la nazione, assumendo delle scelte coraggiose, che – a quanto pare – non hanno, invero, raccolto il consenso che lo stesso Presidente del Consiglio sperava di alimentare.
Ora, a distanza di sette giorni dal turno di ballottaggio, su Renzi cade un peso significativo: o entrare nell’agone della competizione elettorale, chiedendo agli Italiani che il voto si trasformi in un suffragio a favore o contro la sua persona, ovvero lasciare i candidati in una condizione di beata solitudine, sapendo bene che, in tal modo, il risultato, che loro dovessero conseguire, sarà unicamente addebitabile ai meriti o ai demeriti, eventuali, degli stessi.
Certo è che, se il ballottaggio dovesse confermare il trend del primo turno, inizierà un autentico processo a carico del Premier, così da indebolirlo, ancora, più di quanto non lo sia già.
Non è un caso se, nel corso di questi giorni, sia iniziato il dibattito all’interno del PD, per cui chi era stato allontanato dalla gestione del partito, immediatamente dopo la vittoria renziana del dicembre 2013, ora è riemerso con prepotenza e rivendica, ovviamente, un cambio di rotta rispetto al recente passato.
Frattanto, da quel dicembre 2013 molta acqua è transitata sotto i ponti, come si dice in gergo, per cui appare improbabile un ritorno al passato, ma è certo che un’analisi, seria ed attenta, di una condizione diffusa di malessere, pure, deve essere fatta, se si vuol evitare che le ragioni di un voto – così fortemente anti-Governo – non possano, ulteriormente, radicarsi e generare una condizione di cortocircuito fra il Paese reale e le istituzioni governative.
Renzi vorrà dimettersi, in caso di flop del PD al ballottaggio?
Continuerà, ovvero, a combattere una battaglia solitaria, ben sapendo che il renzismo ad oltranza potrebbe essere la causa della chiusura prematura del suo breve ciclo politico?
Aspettiamo fiduciosi l’esito delle elezioni della prossima domenica, ben sapendo che esse, comunque, segneranno una svolta e, forse, finanche l’autentica e definitiva transizione dalla Seconda alla Terza Repubblica.