Quella che si preannuncia, per domani, sarà una Direzione Nazionale del PD, certamente, infuocata.
Infatti, sarà il primo momento pubblico di dibattito dopo la disfatta del voto amministrativo e rappresenterà un iniziale avvio di quel confronto che, finora, non si è prodotto all’interno del partito del Premier, da quando appunto Renzi è a Palazzo Chigi.
Nessuno può negare che, a partire dal 2014, la minoranza democratica ha perso progressivamente forza, sia per la bravura del Presidente del Consiglio, che ha ridotto al silenzio i suoi avversari, sia per un atteggiamento fin troppo debole da parte di chi avrebbe dovuto, con maggiore intensità e frequenza, attaccare il nuovo indirizzo renziano.
Appare evidente che il voto amministrativo sia stato una vera ed autentica sconfitta per il Premier, il quale ha avvertito il dato di Torino, di Roma e di Napoli come segni di sfiducia progressivi nei suoi riguardi, anche se, in assenza di confronto, è stato abilissimo a spostare, altrove, la ricerca dei responsabili della disfatta elettorale.
Da domenica scorsa in poi, però, qualcosa è cambiato nel PD: la minoranza ha preso coraggio e crediamo che si farà sentire sui temi sui quali Renzi si giocherà il proprio futuro, a partire dal referendum costituzionale fino alla nuova legge elettorale.
È ovvio che, per intrinseco interesse correntizio, la minoranza del PD dovrà alimentare il dibattito, promuovendo le ragioni del “NO” al quesito referendario, sapendo bene che, se Renzi perderà il referendum, sarà tagliato fuori sia dalla gestione del partito, che dalla permanenza ulteriore a Palazzo Chigi.
Il vero regista non potrà che essere la personalità più intelligente, in termini politici, del PD non-renziano, quel D’Alema che, non a caso, è tornato a parlare nelle ultime settimane della campagna elettorale per il voto amministrativo, quando iniziava ad evidenziarsi uno scollamento profondo fra la pubblica opinione progressista e la leadership renziana, ormai sempre più criticata ed avversata sia dentro al partito, che fra gli elettori della principale forza italiana.
Il mutamento genetico, che Renzi in questi due anni ha impresso al PD, non ha giovato purtroppo al partito, visto che ha perso il consenso dell’elettorato di Sinistra e non ha conquistato quello moderato, come credeva e sperava di fare.
Ora, il dibattito non potrà che avere come oggetto la natura culturale del nuovo PD, almeno di quello che si intende costruire dopo il voto delle grandi città.
Si vuole, infatti, continuare sulla strada del leaderismo spinto ovvero iniziare una rinnovata fase, molto più collegiale e democratica?
Negli ultimi due anni, il PD non è mai stato l’auspicata casa di vetro, ma sovente si è trasformato in un mero comitato elettorale – pur legittimo – del suo Segretario Nazionale e della sua corrente, che ha portato allo svilimento degli organismi interni, ridotti solo a momenti di rilancio mediatico delle posizioni del Presidente del Consiglio.
La nuova classe dirigente è apparsa sempre più un feticcio, visto che, a livello locale, tarda a nascere un gruppo di intelligenze, che possano spingere il partito al successo, laddove non arriva il consenso calante del Segretario Nazionale.
Peraltro, solo ora, Renzi si accorge di avere modificato la legge elettorale in modo tale da favorire il successo dei Grillini alle prossime elezioni politiche e, molto probabilmente, dopo il voto amministrativo ha preso, finalmente, atto della sua debolezza in molti ambienti della pubblica opinione, che ormai non si lasciano più incantare dalle sirene del Sindaco-Premier.
Siamo alla vigilia, quindi, di un appuntamento importante, che servirà a capire se la minoranza del PD ha la forza e la volontà per contrapporsi, ancora, al Presidente del Consiglio e se il PD è destinato a rimanere un possesso esclusivo di Renzi e dei renziani o se, al suo interno, esistono le condizioni di agibilità politica per chi renziano non lo è e, forse, non lo sarà mai.
Frattanto, le scadenze si approssimano ed, invero, Renzi non può sperare in un differimento della data di celebrazione del referendum costituzionale, per evitare una sonora sconfitta ad ottobre.
Se questa fosse la sua strategia, sarebbe molto vicina la conclusione – ingloriosa – della sua parabola ai vertici del PD e, dunque, del Governo e la minoranza interna avrebbe gioco, per davvero, fin troppo facile nel liberarsi di chi, per oltre due anni, l’ha messa nell’angolino, pensando così di blindare il suo potere dalle parti del Nazareno.