- di Mario Piccirillo
Una mattina mi sono svegliato e “bella ciao!”. Ho salutato la capolista, come si conviene, e poi ho cominciato a squadrarmi la realtà che alla sera prima mi si era nascosta causa doppio svenimento al minuto 94 di Napoli-Inter. Un mondo capovolto nel quale l’unico a cadere sempre in piedi è Roberto Mancini. “Inter quadrata”, “solida”, “grintosa”, “robusta”, “sfortunata”, “derubata” persino. Hanno visto tutti – tranne me, evidentemente – “la migliore Inter della stagione”. Il che effettivamente pure può essere, trattandosi di giudizio relativo: nelle precedenti 13 giornate ogni volta che ho provato a guardare una partita dell’Inter ho preferito, piuttosto che sopportare quella tortura estetica, leggermi le istruzioni dello scaldabagno. In tedesco. Quindi non so, mi astengo e mi fido. Di più: faccio ammenda. Perché Gianni Mura, che nel mio pantheon personale del giornalismo sportivo sta piazzato benino, ha scritto: “Sarri ha più motivi di preoccuparsi rispetto a Mancini. Se ieri era un esame di maturità l’Inter l’ha superato, il Napoli no”.
Faccio leva su tutto il mio risicato buonsenso e cerco di capire. Con calma. Roberto Mancini ha prelevato l’Inter dalle mani del povero Walter Mazzarri, portando con sé il suo sfavillante curriculum di allenatore vincente. Il problema di ogni critica a Mancini è che – seppur motivata – viene immediatamente bocciata per l’utilizzo di argomentazioni trite e ritrite: non ha fatto la gavetta, ha sempre allenato squadre fortissime, eccetera eccetera. Dribblo il problema e provo a restare all’attualità. Appena sbarcato in quella valle di lacrime lasciata da Mazzarri, Mancini ha subito cavalcato la nuova gestione Thohir e ha preteso l’acquisto di Podolski e Shaquiri. Ha chiuso il campionato in linea con l’andazzo Mazzarri, e a giugno ha buttato nell’umido i suoi primi due acquisti. “Mancini è bravo a farsi comprare i giocatori”, dice il saggio al bar. Bravo mi pare riduttivo: il Mancio ha passato l’estate al mare col cellulare in mano a dettare le sue condizioni di mercato a mezzo stampa: “Voglio 10 nuovi acquisti. Li voglio e basta”. Gliene hanno dati 9: Perisic (“il miglior acquisto in Europa!”, l’ha definito lui), Felipe Melo e Alex Telles se li è trascinati appresso dalla Turchia, Ljajic dalla Roma, un’intera difesa rifatta con Murillo, Miranda, e Montoya (subito cestinato, ché prima di comprarlo mica lo sapeva che era così scarso, eh), 30 milioni spesi per Kondogbia, e infine Jovetic. Senza contare i soldi incassati dalle cessioni e le rate degli acquisti delle sessioni di mercato precedenti (Dodò, Medel, Brozovic), l’Inter ha investito in questo mercato qualcosa come 126 milioni. Per affrontare una stagione senza coppe, traguardo fallito con lui in panchina.
Con una rosa così, e senza altri impegni se non campionato e Coppa Italia, Mancini non ha resistito alla sua indole di grande tecnico internazionale, cominciando a fare un turnover randomico una giornata dopo l’altra. Un unico titolare: Handanovic. Tutti gli altri sulla giostra, riuscendo nell’impresa di prendersi il merito di ogni risicato 1-0 che portava a casa, ipnotizzando i media con scelte spesso a capocchia, ma vincenti e quindi “geniali!”. Quando la Fiorentina l’ha calpestata 4-1, qualche sopracciglio alzato e nulla più. Mancini, a detta fatalmente di tutti, ha plasmato un’Inter orribile ma efficace. Ha cambiato modulo ad ogni alito di vento contrario, facendo Icardi capitano con Jovetic vicino, poi con Palacio, poi nel tridente con Perisic, poi con Ljajic ma senza Jovetic, poi con Jovetic ma senza Icardi. Stessa roba con il centrocampo di bodyguard: Melo, Medel, Brozovic, Guarin, Kondogbia. Per non parlare delle fasce, a destra Santon in ballottaggio perenne con D’Ambrosio e Nagatomo, a sinistra una manciata di turni con Telles a giocarsi il posto con Juan Jesus, e poi di colpo Nagatomo titolare. Quel Nagatomo schierato contro il Napoli – immagino – perché veloce e quindi adatto a contrastare Callejon. Qualcuno, dopo la sconfitta col Napoli, ha per caso provato a mettere sul conto di Mancini la scelta di Nagatomo? O dell’imbalsamato Icardi dopo che nella precedente partita il tandem Jovetic-Ljajic aveva fatto a polpette il povero Frosinone? No, perché nel fantastico mondo di Mancini, lui “è stato bravissimo a trovare i cambi giusti”. Capito? Lui sbaglia, lui aggiusta, ma tutti vedono solo l’aggiusto. Per lo stesso sistema metrico, se il Napoli domina per tre quarti di partita, poi l’Inter segna un gol del tutto casuale, e negli ultimi 20 minuti va al tutto per tutto, beh… ecco “la migliore Inter della stagione”. La “matura” Inter che va sotto 1-0, che resta ancorata in 11 (e poi in 10) dietro la linea del centrocampo con il Napoli a far gioco. Riassunta perfettamente nella sintesi numerica di Sarri, a fine match: “Fino all’89’ eravamo 6 palle gol a una…”. Ma nemmeno Sarri ha capito che il fantastico mondo di Mancio gira al contrario, e in quel momento erano tutti lì inchiodati ad apprendere per bocca sua che “Callejon ha simulato”, che “non si possono prendere due gialli sulla trequarti” (pare che nel suo regolamento ci sia una postilla a riguardo), “che in undici avremmo vinto”. Come il peggior Mazzarri, che il buon Walter ci perdoni.