L’editoriale dell’altro giorno di Angelo Panebianco, sulle pagine de Il Corriere, mette in evidenza un dato, ormai, ampiamente acquisito: il PD non è più l’erede della tradizione comunista, anche a seguito della svolta impressa dal renzismo imperante, che, per motivazioni non solo generazionali, ha contribuito in modo decisivo a tagliare ogni ponte con il passato, portando compiutamente il partito, erede del PCI, in un’èra post-ideologica.
Una simile acquisizione, evidentemente, cela aspetti positivi, ma anche fattori inquietanti: era da tempo che si aspettava la nascita di un partito, che mettesse in soffitta gli eredi di Marx e di Gramsci.
L’ultimo, che aveva tentato una simile operazione culturale, prima ancora che politica, è stato Bettino Craxi, ma sappiamo bene come si sia conclusa la sua vicenda, purtroppo non solo istituzionale, ma anche personale.
Renzi ha, invero, molte chance in più di traghettare la Sinistra italiana fuori dalle secche del post-comunismo, visto che è giovane e, soprattutto, vanta l’ambizione tipica dei democristiani di vecchio corso, che, mentre conducevano operazioni di ampio spessore ideale, erano contemporaneamente capaci di interessarsi di cose ben più terrene e mondane, fondamentali per la sopravvivenza.
Naturalmente, un’operazione simile nasconde, però, aspetti non poco inquietanti.
La tradizione del riformismo post-comunista non viene sostituita da nessun altro filone nobile di cultura politica, ma semplicemente Gramsci e Lenin vengono sostituiti da un’ansia, che sappiamo bene essere una condizione emotiva pre-razionale e, dunque, meramente adolescenziale: l’ansia del potere.
Interpretare la politica come mero esercizio di potere è il tratto distintivo dell’azione renziana e del suo gruppo di potere.
Liberalismo, socialismo, comunismo, moderatismo, cattolicesimo democratico per il sindaco fiorentino sono categorie del passato, con cui si può giocare per trascorrere il tempo, amenamente, in una conversazione a Piazza della Signoria, ma la politica, per lui e per i suoi accoliti, è conquista di spazi, eliminazione del nemico interno prima ancora di quello esterno, esercizio di abilità mediatiche a prescindere dalla validità dei contenuti, visto che questi, per lo più, se esistono, sono fumosi ed esprimono una visione infantile della società e dei rapporti di forza fra classi deboli e ceti privilegiati.
D’altronde, questa è la logica degli amministratori locali, che prendono consenso non perché “rossi” o “neri”, ma perché, per usare un loro linguaggio, essi “fanno”.
Ovviamente, se una simile mentalità va bene per l’amministrazione, perché ordinare la costruzione di un marciapiede è un’operazione, che può andare bene a chiunque, è altrettanto vero che la guida di una nazione, peraltro in un momento di particolare difficoltà, non può confondersi con un mero esercizio amministrativo, perché gli interessi in gioco sono ben altri.
D’altronde, una visione, apertamente, anti-ideologica della politica è – a sua volta – espressione di una mentalità, fortemente, politica.
Infatti, in nome dell’anti-ideologismo, rimane in piedi l’unica ideologia, che può avere ospitalità, quella dei poteri e degli interessi forti, che narcotizzano la società e, quindi, qualsiasi forma possibile di dissenso, in nome di una cogente necessità: il “ben fare”.
Così procedendo, fra qualche anno, sarà scomparsa del tutto dalla politica italiana la dicotomia Destra versus Sinistra, perché la vera contrapposizione dialettica sarà fra filogovernativi e movimenti generici di opposizione.
Dal momento che gli Italiani, anche dopoché si sono lamentati, preferiscono sempre trovare riparo all’ombra accogliente del potere costituito, è chiaro che l’esito della partita è scontato: vinceranno sempre i filogovernativi contro i movimenti, che semplicemente avranno contribuito a dare colore alla politica e a far immaginare che esiste – ancora – una democrazia, che invece sarà un orpello, così come le nozioni stesse di Destra e Sinistra, su cui essa si fonda a partire dai tempi della Rivoluzione Francese e del Parlamento della Prima Repubblica Transalpina.
Orbene, la strada di Renzi si presenta in discesa: finanche, l’astensionismo in crescita lo aiuta, perché, di qui a breve, a votare andranno solo coloro che sostengono le forze di Governo, per cui il voto diventerà un plebiscito, anche se conseguito su una percentuale minima di elettori.
Ma, nell’ottica renziana, conta vincere, non mandare gli elettori al voto!
Ed, allora, il primato della politica che fine farà?
Si può dire che non è mai esistito, men che mai nell’attuale contingenza storica.
Se per Marx l’economia era la struttura della società e la politica, alla pari della cultura, una semplice sovrastruttura, oggi la struttura autentica diviene la finanza internazionale, mentre la politica si confonde con l’esercizio, più o meno autoritario, del potere in nome di una logica falsamente efficientista, che non riesce ad eradicare dalle istituzioni i mali tradizionali del cattivo governo e della corruzione, anzi li accentua nella misura in cui vengono meno gli strumenti e le occasioni di controllo, formale ed – in particolare – sostanziale.
Siamo, quindi, in un’epoca post-politica?
Forse, potremmo dire in un’epoca post-democratica, nella quale l’autorità, sia pure in modo soft, riesce ad imporre costumi e tendenze ad una pubblica opinione eteroguidata, così come i sociologi francofortesi avevano profetizzato negli anni Trenta del secolo scorso.
Chi ci salverà, allora?
La Magistratura, se avrà la forza ed il coraggio di intervenire laddove esistono le condizioni per un suo intervento drastico?
Temiamo, purtroppo, che oggi le cose siano ben più complesse di venti anni fa: allora, Tangentopoli fu possibile, perché i cittadini non ne potevano più; ora, invece, il clima di disinteresse generale non aiuta chi dovrebbe, chirurgicamente, agire per rimuovere mali atavici.
Pertanto, non ci resta che gridare, come si faceva ai tempi della monarchia ottocentesca, lunga vita al Re ovvero lunga vita al potere precostituito!