di Raffaele Carotenuto
Perché scegliere un libro di poesie? Per “liberare” parte del proprio inconscio, per sentirsi più ricchi dentro, per poter meglio fare i conti con il proprio mondo interiore.
Il libro di Antonella Pederiva, dal titolo: “La Metamorfosi del cuore” (Setart Edizioni, pagg. 84, Euro 14,00), sembrerebbe proprio raccogliere tutte queste condizioni.
Poeta alla sua terza opera edita, quasi avverte l’esigenza di uscire da questo mondo, non perché non le basti la sua interiorità nella quale si rifugia, giacché avverte come “strette” le convenzioni dominanti, l’ossesso del presente, l’asfissiante routine quotidiana.
La sua reazione, uguale e contraria, la si tocca in ogni verso delle sue poesie, tra le righe, con pensieri a tratti anche crudi e struggenti, ma sempre alla ricerca di una vita migliore, di un altro mondo possibile e praticabile.
Anche lo sguardo ai sentimenti passati sortiscono l’effetto di essere liberatori, disinibiti, frammisti di ricordi e slancio futuristico. Una silloge che tramanderebbe anche una sorte di passaggio generazionale, un declamare da autrice/figlia ad autrice/mamma.
In tanti momenti si capisce che Antonella Pederiva non profonde certezze, ma è palpabile la continua ricerca di un altro Creato, del sogno che verrà, del sentiero illuminato dalla nuova alba. Non sceglie la strada dell’ignoto, ma quella dei sentimenti, dell’afflato con la natura, del respiro di cose vergini. Se da un lato si rende conto che la rappresentazione della realtà è marcia e corrotta, dall’altro chiede le ali per poter spiccare il volo.
Questa sorta di disagio esistenziale è sempre combattuto, osteggiato. Ciò che particolarmente incarna questo stato d’animo è la poesia: “Usque ad Finem”, fino alla fine, all’estremità.
Una voglia mai sopita di buttare giù l’esistente ormai irrecuperabile, senza fermarsi mai alla rinuncia, non un passo indietro ma combattendo fino allo stremo delle proprie forze.
E poi ancora:” Come può un poeta tacere?”. Un grido di dolore verso colui che usa scrivere i propri sentimenti, che parla all’umanità. Questi, secondo l’autrice, non può non urlare la propria voce, omettere la verità, deve sporcarsi le mani, far valere la propria idea pubblicamente.
A lui è affidata la maggiore responsabilità, l’onere di contribuire fattivamente a formare coscienze, a frenare la fuga di valori, l’emorragia verso il vuoto. Ma non sempre è tutto rose e fiori.
L’arma della poesia, come sostiene in “Nemesi”, è tanto potente quanto contorta. Può essere bellezza, salvezza, ma anche morte, sorgente e veleno, dissonanza e accordo.
L’autrice inoltre mette il “sigillo sulla vita” con altre due liriche in particolare, dai titoli fortemente significativi: “Sono” e “Il pensatore”. Esisto e quindi sono, sembrano dire.
In quest’ultime tira fuori gli artigli ma sa essere anche “tenerezza”, appoggiandosi a madre natura, allo spazio circostante, al tempo che la vive.
Un soggetto pensante, che immagina orizzonti, che sa distinguere il visibile da ciò che non lo è.
Vale la pena leggere un libro così?
Se si è disposti a mettersi in discussione prima di spiccare il volo, si.