di Anna Crudo
Percorro il viale di pruni fioriti con gli occhi socchiusi. Il vento si è alzato improvviso. Nel controluce creato dai rami, conto mille insetti, che danzano la loro giovane e unica primavera nelle strisce di luce dorata. Oggi è come avevamo sempre sognato di vederlo e viverlo: un giorno di cielo blu intenso, che nessuna nuvola interrompe, contro cui si staglia l’ampio ombrello dei pini marittimi. I secolari tetti di cotto si riprendono il calore rubato dall’inverno, come vecchi che asciugano le ossa seduti sulle panchine al sole.
Oggi è il giorno che aspettavamo, in cui non si può fare a meno di togliersi, finalmente, il cappotto troppo a lungo indossato. Sembra di levarsi il peso dell’inverno, per riprendere, con passo più leggero, la strada verso l’estate. E io socchiudo gli occhi, mimando il gatto rosso, steso sul marmo antico. Anche lui, come me, ha desiderio di una carezza. Anche lui diffidente quanto basta a farlo voltare e andarsene con un balzo, che comunica più l’irriverenza verso l’umano, che la paura.
Alzo il mento in direzione del vento fresco. Mi porta un senso di vita nuova, insieme all’odore misto della città. Giunge dallo stesso cielo di sempre, in cui libero, adesso, i miei pensieri, come palloncini sfuggiti alla mano troppo fiduciosa dei bambini. Qualcosa ci sfugge sempre. A volte per sempre. Qualcosa ritorna, con il volo silenzioso delle rondini e i motorini che ronzano nelle strade. E’ più che sogno, è aspirazione viscerale, necessità di vita buona.
Non si piega al dolore che ci ridesta la notte, lasciandoci sperduti al buio. E’ indomabile forza, portata come uno spesso mantello sulle spalle, che tuttavia non sa sempre ripararci dalla crudezza del freddo. Che a volte pesa, quando non riusciamo a fare dono del suo eccesso. Che a volte viene a mancarci, quando per avvolgere un cuore grande, ma fragile, lo posiamo sulle spalle di qualcuno che ne ha più bisogno, ma che non ricambia. Quel che è dato a chi si allontana non torna che in forma di un più profondo sentire. Che sia il profumo dell’olio nuovo di frantoio che abbiamo regalato, all’inizio dell’inverno, o il gusto di un bacio dolce e promettente, condiviso sul finire di un’estate. Che sia l’abbraccio infinito per un figlio ormai grande, o una casa, per i sogni di chi poi chiude la porta e da quella casa se ne va.
Quel che è dato a chi si allontana sarà suo per sempre. Se lo vorrà serbare. Senza rimpianti si fa tesoro dell’esperienza dei doni scambiati. Sull’ordito, sempre più fitta e nitida s’intreccia la trama di un nuovo tessuto: da chi eravamo prima, a chi siamo adesso. Di quello, leggero e luminoso, dobbiamo rivestirci, che ci protegga la pelle e il cuore, ma solo quel tanto che basta a non nascondere quelli che siamo davvero.
Oggi è un giorno come ne abbiamo visti tanti, voi, io, in tanti anni. Senza sapere che, a latitudini diverse, stavamo pensando alle stesse cose. Senza sapere quel che sappiamo oggi: come scivolasse veloce il blu del raso dalle spalle e quanto lento e intimo fosse il movimento della mano che accarezzava la guancia, quando vi si poggiava con tenerezza. Quanto grande e pieno di incertezza, di volontà, di desideri, sia lo spazio che si crea quando si sciolgono le mani e una promessa. Forse qualcuno sa anche esattamente, come me in questo momento, quale sia l’inclinazione del sole, e i riflessi sui muri delle case, in un pomeriggio di marzo, a Roma.