“Perfidia” in spagnolo significa tradimento. James Ellroy non ha scelto a caso il titolo del suo ultimo romanzo. La canzone di Gleen Miller è la metafora di quello che succede nelle ottocentottantadue pagine che compongono quest’opera enciclopedica, un noir storico, il primo capitolo di una tetralogia ambientata a Los Angeles che, temporalmente, precede l’altra (Dalia nera, Il grande nulla, L.A. Confidential, White Jazz), ambientata tra il 1946 e il 1958, caratterizzata dalla stessa miriade di personaggi, alcuni partoriti dalla fantasia dell’autore, altri realmente esistiti, che si ritrovano anche nell’ultima trilogia – quella che setaccia la storia americana degli anni ’60 – (American Tabloid, Sei pezzi da mille, Il sangue è randagio). C’è filo sottile che tiene insieme trent’anni di storia americana, di ricatti e corruzione, di promosse mancate e sogni infranti.
“Perfidia” ha inizio il 6 dicembre 1941, il giorno prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbour. Il corso degli eventi si intreccia con il brutale massacro di una famiglia giapponese. L’opera ripercorre i ventidue giorni in cui l’America inizia a perdere la verginità, descrive l’affarismo di chi vede nella guerra un’opportunità di guadagno, i complotti e i tradimenti che deviano il flusso degli avvenimenti. La alterano, la contaminano, la oltraggiano. La storia stessa si trasforma in un gigantesco tradimento che ribalta gli ideali, imprigiona gli uomini e le loro aspettative, disumanizza chi gestisce soldi e potere.
Tutto il romanzo è percorso da una vena romantica che non si intravede nei lavori precedenti di Ellroy. Guerra e passione, violenza e sentimenti si mescolano in un intrigo noir e nostalgico. Los Angeles, vibrante e contraddittoria, risulta affascinante e abbagliante, seducente e ingannevole. Lusinga e imbroglia, illude e disillude, crea e distrugge. O genera mostra e produce infamie come l’internamento di 120 mila cittadini di origine nipponica la cui unica colpa era di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Una macchia indelebile sulla storia americana. Un episodio che non ha ricevuto la giusta attenzione e che Ellroy ha scandagliato nei minimi particolari individuando pure gli interessi politici celati abilmente tra gli anfratti della storia. Per Ellroy, che si è definito il “cane nero della letteratura americana, un Dostoevskij redivivo”, il delitto è il castigo degli uomini che si muovono in una logica inevitabilmente hobbesiana, in cui non c’è, se non eccezionalmente, perdono né redenzione e non si può concedere al nemico nemmeno l’onore delle armi. Tutto è portato alle estreme conseguenze. Fino alle cospirazioni, ai sabotaggi, agli scontri cruenti, agli omicidi efferati, ai depistaggi.
A qualche purista, il paragone con l’autore russo potrebbe sembrare azzardato. Forse lo è. Quello che è certo è che la letteratura e i linguaggi si evolvono e, oggi, Ellroy ha una potenza narrativa fuori dal comune, cadenza le azioni con frasi brevi, usa espressioni gergali, governa con sapienza il ritmo della trama come se fosse un film, calibra alla perfezione l’equilibrio tra racconto e dialoghi inserendo, all’occorrenza, anche una poetica personale legata all’episodio (l’assassinio della madre) che ha segnato la sua esistenza. E soprattutto Ellroy non ha paura di rincorrere i fantasmi della storia, di metterla sotto la lente di ingrandimento, di investigare negli angoli reconditi del potere e delle coscienze individuali, di demitizzare il sogno americano e i suoi presunti eroi. Non ha paura di mostrare la vita reale, la morte, le colpe di chi governa, la mani che grondano sangue, la prepotenza della menzogna. Non ha paura di sporcarsi le sue di mani mentre scrive. Tutto quello che la maggior parte della letteratura contemporanea, un’ammucchiata confusa di autori banali che si esprimono con parole disoneste e linguaggi insulsi, non sa più fare. Tutto quello che chi – a torto – ritiene il noir un sottogenere non sa e non può apprezzare.
Gianluca Spera