di Pasquale Di Fenzo
In principio fu Giulio Cesare, poi ci vollero oltre duemila anni perché un italiano andasse a conquistare di nuovo l’Inghilterra. Era il 1973, la partita era una amichevole, ma per noi italiani era importante quasi come un mondiale, dove, ironia della sorte, non ci eravamo mai incontrati.
In precedenza un’altra amichevole era passata alla storia per un gol di mano segnato da Piola. Si era giocata a Milano, nel 1939, con l’Italia due volte campione del mondo e gli inglesi che avrebbero dovuto aspettare quasi altri trenta anni per poterlo diventare. E non senza qualche ombra.
Nel 1973 il clima del pre-partita risultò particolarmente avvelenato per un’intervista rilasciata da Chinaglia, che aveva vissuto molti anni nel Regno Unito. Il Giorgione nazionale dichiarò, non senza un pizzico di rancore, che non temeva il pubblico inglese perché “Se è vero che alle cinque prendono il te, poi per l’ora della partita sono già tutti ubriachi”. E proprio un tiro di Chinaglia, ribattuto alla meno peggio del portiere inglese Shilton, fu ripreso da Capello che segnò la rete della vittoria. All’epoca si parlò di tiro di rimpallo, oggi si chiamerebbe “tapin”. Poi, ironia della sorte, qualche anno dopo, proprio Capello fu chiamato ad allenare la Nazionale Inglese.
Nelle competizioni ufficiale c’è poca roba, se si esclude una nostra vittoria alle qualificazioni dell’europeo del 1980, dove Tardelli fece le prove generali per lo storico urlo di Munch e poi una “finalina” di consolazione per il terzo posto a Italia 90 all’insegna del “volemose bene” e conclusa con una “ola” generale di tutti i giocatori a centrocampo in contrapposizione al clima di “Hijos de puta!” di maradoniana memoria. Agli europei del 2012 li buttammo fuori grazie ai rigori decisivi nientemeno che di Nocerino e Diamanti, e ai mondiali del 2014 Balotelli mise in mostra, oltre ai suoi addominali, quella che sarebbe potuta diventare la sua innata classe calcistica. Ma la sfida Inghilterra-Italia va estesa anche ad altri campi.
Nel ciclismo non c’è partita tra Italia e Inghilterra. Troppi i nomi che hanno dato lustro al ciclismo italiano. Per loro però ce n’è uno che forse vale per tutti: Tommy Simpson. Già campione del mondo, la sua carriera si chiuse al tour del 1967, in un assolato pomeriggio di luglio sul Mont Ventaux, una delle tappe più massacranti del tour. Improvvisamente cominciò a zigzagare fino a cadere dalla bici:“Put me back on my bike” ( rimettetemi in sella) è la frase che la leggenda vuole che Tommy abbia urlato ai primi soccorritori. Ma non ci fu nulla da fare, né per rimetterlo in sella, né per salvargli la vita. Quando arrivò l’elicottero dei soccorsi, era già morto. Naturalmente si parlò di droga. All’epoca non esisteva l’antidoping. A rincarare la dose ci pensò il campione francese Jaques Anquetil: “Cosa pensate che possiamo veramente fare 4.000 km in bicicletta in 22 giorni di gara andando a pane e acqua ?”
Ma prima della partenza di quella maledetta tappa che costò la vita al ciclista britannico un giornalista francese, vedendolo particolarmente provato (veniva da tre giorni di fastidi intestinali) e conoscendo la sua avversione per il caldo, gli chiese se era proprio quello il motivo della sua condizione. Simpson, da sempre uno dei ciclisti più simpatici e spiritosi del gruppo rispose da par suo: “No amico. Il problema non è il caldo. Il problema è il Tour !”. Una denuncia rimasta inascoltata. Uno di quelli che non ha mai creduto alla (facile) equazione “anfetamine-morte di Simpson” fu il campione italiano Ercole Baldini, suo grande amico:
“Tommy era un ragazzo eccezionale. Quando morì sul Mont Ventoux, troppi giornali scrissero che la sua morte era stata causata dall’ingerimento di sostanze dopanti, e allora al dolore si aggiunse la rabbia per quella che giudicai, allora come oggi, una ingiustizia e una spiegazione superficiale. Tutti sapevamo della sua insofferenza al caldo, anche il suo manager storico che, contrariamente allo staff della Nazionale, l’aveva scongiurato di ritirarsi, ma lui non ne volle sapere. E quell’anno il Tour si correva con la maglia della nazionale e non con quella della abituale squadra”. Dopo una denuncia del genere forse qualche indagine andava approfondita. Già allora, come succede ancora oggi, forse la giustizia sportiva avrebbe dovuto lasciare il posto alla giustizia ordinaria.
Nel campo musicale non c’è partita, Stavolta a loro favore. Ai Beatles, ai Rolling, a Sir Elton John, ad Amy Winehouse e tanti altri, a livello veramente internazionale possiamo opporre solo Domenico Modugno. I vari De Andrè, Dalla, Battiato, e finanche Battisti e Celentano, a livello internazionale non hanno mai raggiunto la meritata fama.
Certo, la Carrà è famosissima in Spagna e in sud America, così come in Russia sono apprezzati Pupo, Albano e Toto Cotugno. Ma qui potremmo ampliare il pensiero precedente di Jaques Anquetil: “Ma cosa credete che i russi impazzirebbero per i nostri cantanti se non si facessero di vodka fin dalla prima mattina?”. Per cercare di equilibrare la bilancia dobbiamo ricorrere alla lirica: Pavarotti, Del Monaco, la Tebaldi, e soprattutto, Caruso, ed i giochi propendono di nuovo dalla nostra parte.
Come nel cinema. Si loro hanno lo scozzese Sean Connery e il gallese Sir Antony Opkins. Ma per tenere botta nella doppia sfida ne “I due nemici” e “I due colonnelli”, ai nostri Alberto Sordi e Totò, assieme al più inglese degli attori inglesi come David Niven, dovettero affiancare il canadese Walter Pidgeon , spacciandolo per ufficiale inglese. Praticamente un rigore alla Cuadrado per poter raggiungere la finale.