di Mariavittoria Picone
Scrivo mentre in sottofondo Jane Birkin sussurra a Serge Gainsbourg, ansimando, “Je t’aime” e lui le risponde “Moi non plus”, avendo appreso da poco della morte della bella artista britannica.
Serge Gainsbourg scrive la canzone per Brigitte Bardot nel 1967, durante la loro relazione durata pochi mesi, e insieme a lei la interpreta, ma non la pubblica, per evitare che il marito della sua amante, avendo scoperto il tradimento, chieda il divorzio. La canzone viene poi pubblicata nel 1969 e nel ruolo femminile c’è Jane, che nel frattempo ha sostituito Brigitte, anche nella vita privata di Serge.
Scandalo e successo vanno spesso di pari passo, così vengono immediatamente vendute più di cinque milioni di copie di quello che è senza dubbio la simulazione di un rapporto sessuale, erotico, non pornografico.
Censurata dalla RAI, la canzone continua ad essere ascoltata in Italia, tramite Radio Monte Carlo e Radio Capodistria e arriva ai primi posti delle classifiche di gradimento, poi, su segnalazione dell’Osservatore Romano, viene completamente oscurata e il distributore viene ritenuto colpevole penalmente per il carattere pornografico del brano.
La prima volta che l’ho ascoltata, da adolescente, cresciuta con la radio sempre accesa, avevo scarsissime conoscenze della lingua francese e tradussi il titolo con “Ti amo, io non più”, sentivo in quell’ansimare tutta la drammaticità della fine di una storia. Più tardi, ho saputo che il senso era un altro, letteralmente: Ti amo, io neanche. Pare che l’autore abbia voluto scimmiottare Dalì che diceva di Picasso: “Picasso est spagnol, moi aussi. Picasso est un génie, moi aussi. Picasso est communiste, moi non plus.” Ovvero: Picasso è spagnolo, anche io. Picasso è un genio, anche io. Picasso è comunista, neanche io. (Fonte Wikipedia)
Ecco il senso della canzone, che poi è il senso della rivoluzione sessuale: ti amo, neanche io.
Nel senso che non è necessario amarsi per fare sesso e non è necessario che tu, donna, ti convinca di amarmi per farlo: tu non mi ami e lo stesso io.
Va bene, viva la rivoluzione, difendo la libertà, anche in campo sessuale, ma ho una certa idea di amore, che cambia, si evolve ad ogni esperienza della vita, che ha a che fare con la mancanza di esclusività, di limiti temporali, di obblighi e di forma.
Sono sicura che possano esistere rapporti sessuali senza amore, ma difficilmente il desiderio reciproco è estraneo all’amore. Perché non dovremmo fidarci del corpo? Perché dovremmo sottovalutare ogni azione mossa dall’istinto? Non c’è niente di sbagliato nei rapporti fisici, perché un rapporto che coinvolge il corpo non può essere estraneo all’anima. Il male, l’errore, ça va sans dire, è nel rapporto in cui manca la reciprocità, in cui non c’è sincerità.
L’amore è dappertutto, lo dice anche un film delizioso, lo dico sempre io, che nel corpo e nei suoi segnali credo fortemente.
Probabilmente apparirò una sognatrice, un po’ infantile (giuro che ero più cinica qualche anno fa), ma alle varie versioni di “Je t’aime, moi non plus”, preferisco quella di Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer: “Ti amo, io di più”, perché spesso quello che si nega con le parole, viene con il corpo.
Quindi, rispondere “neanche io” ad un ti amo è come dire: cosa ci importa di dare un nome a quello che sentiamo adesso? Mi ami, non mi ami, intanto io vengo e vado dal tuo corpo, che mi accoglie e mi comprende e va bene così.
Sì, va bene così, se entrambi comprendono la sacralità di un amplesso, se credono al miracolo che si compie ogni volta che due corpi si scambiano quello di cui hanno bisogno, che importa quanto dura la storia e se c’è una storia, basta che ci sia reciprocità e sincerità.