di Elio Goka
Pare che gli uccelli riescano a vivere meglio nei cimiteri perché nella tranquillità di questi luoghi per essi è più breve il tempo tra la percezione della minaccia e il momento di reazione in cui alzarsi in volo per fuggire. Una specie di parametro studiato anche in zoologia, che nei camposanti sembra trovi più confortante riscontro per queste creature che trovano maggiore serenità dove l’uomo tiene a deposito la morte.
Un rumore troppo forte, un movimento sospetto e gli uccelli volano via a sentirsi più al sicuro. Ma poi ritornano, perché quel luogo dove l’istante molesto è innocuo e accidentale da secoli non tradisce quel delicato equilibrio tra l’allerta e il conforto. Una pace sopra la pace. Un verbo sopra ogni silenzio.
La scomparsa di Jean-Luc Godard e di Javier Marías mi ha riportato alla mente un interrogativo spesso sottaciuto e tenuto in disparte. C’è qualcosa che muore ulteriormente quando la morte colpisce chi sdoppia il suo se stesso in costante e duratura fase creativa? Il narratore, l’artista, il musicista, o tutti coloro che hanno dimestichezza con la creatività presenziano l’attenzione umana attraverso una molteplicità vicaria e simulatoria del se stesso. Fugge e ritorna costantemente tra i dibattiti letterari l’antica questione biografica. Al di là di quanto essa sia espressa o mimetizzata, l’autore è lì, a sorreggere i suoi personaggi, le sue figure, le sue mastodontiche balene partorienti. Oppure è lui stesso a farsi sostenere dai generati della sua immaginazione. Ecco che la morte irrompe a silenziare per sempre colui che si nasconde e colui che maneggia quel verbo indomito e imprevedibile. Allora, cosa muore quando muore un narratore?
Walter Benjamin ha scritto che “La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità”.
Tutto lo scaturito di quello che terminerà dentro le catalogazioni separerà per sempre il genere dal generante. La tragedia – il movimento, sia intesa come il movimento – troverà la sua fine. Non l’epilogo, perché esso non coincide con la fine, ma la sua fine. Anzi, il narratore ha tra le sue qualità quella di intuirlo, rintracciarlo, l’epilogo. Caricato a seguito come un fardello, esso coincide con una destinazione anzitempo che si è collocata ancor prima di essere scovata. Solo il narratore può saperlo. E la sua forza quasi sempre è proprio scongiurare la fine.
“Il narratore — per quanto il suo nome possa esserci familiare — non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi”, sottolinea Benjamin nel saggio scaturito da un’osservazione sullo scrittore Nikolaj Leskov.
Tuttavia, dando per scontato che la narrazione non coincida con il vissuto, il narratore non è lui e non è la sua vita. Solo uno sfoglio parziale o un’immedesimazione d’occasione possono approssimarlo a quello che lui sfugge o rincorre proprio attraverso la narrazione. Anche le più terribili e autentiche immedesimazioni, le più cruente e struggenti restituzioni e testimonianze operano attraverso uno spazio che si schiude tra l’autore e qualcosa che per lui e attraverso di lui realizza la cosiddetta letteratura.
E allora dove finiscono i recuperi all’ombra di notti insonni e tormentate riflessioni? Dove finisce tutto il tradotto che manipola gli opposti e le similitudini confondendo il reale dall’immaginato? Le quinte inconfessate, i segreti per i quali la forma e il coraggio hanno fallito, o, di più, non hanno tentato, dove finiranno? Un immaginario inesplorabile, consegnato a un mai più per sempre, è il sudario invisibile di tutto il non detto che il narratore ha risparmiato e non per questo vuol dire che esso abbia risparmiato lui. Tutto il contrario. È in questo non veduto, per dirla alla Singer in una provvisoria manomissione, che il demone della parola in narrazione la trasporta ancor prima che arrivi la morte a porre fine a tutto. Lì è fissato il punto vittorioso del narratore persino nei confronti della morte stessa.
“Sono il contrario del romanziere che sa tutto già prima di cominciare a scrivere, so più o meno dove voglio andare, ma non seguo nessuna carta e perciò talvolta mi trovo davanti a un precipizio senza sapere che c’era. Piuttosto, osservo una disciplina secondo la quale non rettifico mai quel che ho scritto. Alla scrittura applico lo stesso principio di conoscenza che, per causa di forza maggiore, appartiene alla vita: non si può modificare quel che è stato” Javier Marías
Non resta che una tenera malinconia. E “Quel che resta (se resta)”, come scrive Montale.
Cosa muore quando muore un narratore? Un battito d’ali risuona sopra questo interrogativo, come quando un uccello si posa silenzioso sopra una tomba che nessuno sa più a chi sia appartenuta.