Historia non facit saltus, ma anche sì, qualche volta, ad esempio quando nel tranquillo corso della Storia irrompe un fattore di discontinuità imponderabile, propellente e propulsivo, che porta le lancette del tempo venti, trent’anni avanti. Quando, per esempio, si realizza in virtuosa perfezione l’aforisma di Kipling, per cui la forza del branco è il lupo, ma la forza del lupo è il branco. Quando individuo e collettività si saldano in inscindibile patto di sangue finalizzato a correre, invece che camminare, insieme, nella stessa direzione. Quel miracolo che nel calcio si concretizza in una fucina di formidabili talenti olandesi agglutinati, aderendovi come guaine, attorno al carisma e al talento, all’autorità e all’autorevolezza, di Johann Cruijff.
Come ha scritto qualcuno, è riduttivo dire che Johann Cruijff giocava come un dio: lui, le partite, le comandava (caratteristica, questa, che lo avvicina al più grande calciatore di questo nostro tempo, Zlatan Ibrahimovic, non meniamocela con Messi e Ronaldo). Le comandava, aggiungo, col suo senso iconoclasta del tempo, un timing capace di anticipare gli eventi e il mondo di una frazione di secondo, una ultramoderna capacità previsionale dell’attimo giusto che la sua danza sulla sfera, fatta di accelerazioni e ripartenze, e il suo “brain-in-progress” rendevano di apollinea semplicità. Attitudine genetica a illudere e deludere l’avversario, accentratore funzionale, dispensatore di spazi ignoti a compagni e spettatori, e una cosa che mi ha sempre fatto impazzire: nessuno come lui, nella trivela.
Avevo assaggiato Cruijff nelle due finali di Coppa dei Campioni giocate contro Inter (due gol, uno facile, l’altro da centravanti, su palla inattiva) e Juventus. Fu ai mondiali di Germania, però, che, pur con gli strumenti ermeneutici del bimbo malato di calcio che ero, ne ebbi chiara la grandezza. Tifavo Italia, all’epoca, l’Italia viziata e imbolsita dei Mazzola, Rivera, Chinaglia, eccetera. E faticavo a comprendere la novità di quel calcio in cui chi attaccava difendeva, chi difendeva attaccava; un rettangolo verde al cui interno di pareva di vedere, come in un gioco di rifrazioni, soltanto maglie arancioni moltiplicarsi all’infinito, contro un solo, impaurito portatore di palla avversario. E poi la stella. Il primo tra i pari, ma il primo. Quello che, con una prestazione forse opaca, perse la finale dopo averla vinta al trentesimo secondo, affondando letalmente nel burro di una difesa fatta di panzer e mastini (Bertie Vogts!) che oggi non terminerebbero una sola partita. Quello che qualche mese prima, a ridosso di un Natale – quello del ’73 – fatto di austerità e sacrifici, segnò a Reina senior (sì, a Reina senior!) il gol impossibile immortalato tre anni dopo dalla voce suadente e sicura di Sandro Ciotti (qualche mese dopo, uno similare, ma più terrestre, al Brasile, ai mondiali).
Chissà quanti ricordano che Cruijff ha intercettato il Napoli. Accadde in coppa delle Fiere, ottavi di finale, stagione 1969-70, una batosta (4-0) maturata nei supplementari anche per un paio di accelerazioni del ventiduenne talento, come qualche raro video testimonia. Accadde, trasversalmente, quell’infausta serata di Rotterdam in cui ridicolizzò il povero Orlandini, con una doppietta e mirabile assortite. Di certo, l’Olanda di cui era corifeo e ha ispirato un Napoli grandissimo, quello di Vinicio. Ma forse mette conto parlare del Cruijff allenatore, quello che, nella sua seconda veste di immenso eroe culturale, ha letteralmente inventato il Barcelona. Quello di Koeman, di Guardiola, di Romario, di Stoichkov.
Quel Barcelona che predisponeva l’appoggio e la pluralità di opzioni di scarico come presupposto del possesso palla, che cercava ampiezza presidiando le fasce, che imponeva al portatore di palla di portarsi appresso almeno due compagni, che manovrava la palla veloce, corta e leggera come grimaldello per scardinare il pullman avversario davanti alla porta, che shakerava in cocktail mirabilmente virtuoso geometria e creatività, lasciando sovrapporsi concretezza e bellezza. Per li rami, si parva licet, il Napoli di Sarri, detentore del più bel gioco visto in Italia da vent’anni almeno, ne pare l’erede, fatte salve talune differenze tecniche dei singoli. E non è poco. Anche in questo risiede la siderale, planetaria, avanguardista importanza storica di Johann Cruijff.
Muor giovane colui ch’al cielo è caro, diceva Menandro. È stato spesso così: è stato così per Senna, Pantani, Scirea. È stato così anche per George Best, forse sopravvalutato e troppo precocemente idolatrato come icona pop anche da chi nemmeno sapeva se calciasse meglio di destro o di sinistro.
Vale anche per Cruijff. Perché la viola d’inverno che se lo porta via sleale e malvagia a 68 anni ci restituisce l’immagine sorridente e sorniona del ventisettenne sfrontato, brillante, audace, provocatore, autocosciente, capriccioso, decisivo, insolente.
Ora che non c’è più, la vita da oggi continua; come ha detto quel meraviglioso intellettuale chiamato Jorge Valdano, davvero un ostacolo in meno al progresso della mediocrità.