La comunicazione politica è, certamente, uno dei punti dolens dell’attuale sistema istituzionale: infatti, essa rappresenta la cartina di tornasole di un apparato, che non sempre è adeguato alle esigenze.
Venti anni fa, Berlusconi ebbe il grande merito di comprendere quanto importante fosse un saggio uso della televisione per acquisire consenso e per divenire popolare in un Paese, che stava uscendo dalla Prima Repubblica e che cercava punti di riferimento, che fossero in grado di far sognare gli Italiani, sempre più depressi a causa della crisi economica e del crollo di valori ed ideali forti, nei quali credere.
Da quel momento in poi, sulla proprietà delle televisioni si è giocata una partita essenziale per la nostra democrazia, visto che la proprietà delle stesse, ineluttabilmente, rappresentava uno strumento di potere per chi doveva imporsi sul proscenio istituzionale.
Non a caso, il vero motivo della sconfitta del Centro-Sinistra, a guida sia prodiana che dalemiana, è consistito nella sua incapacità di risolvere il problema del monopolio televisivo berlusconiano, per cui l’imprenditore del Biscione non solo ha avuto modo di incrementare i suoi profitti, già ingenti, ma ha di fatto usato giornali e tv nell’ottica di una propaganda permanente, rendendo di fatto il Paese il teatro di una campagna elettorale incessante e continua.
A distanza di un paio di decenni, l’uso della tecnologia ha favorito, invece, i movimenti anti-sistema: in particolare, la Rete ha fatto sì che organizzazioni nascenti, che non trovavano spazio in televisione, potessero veicolare i loro messaggi in modo pervasivo, consentendo loro di crescere in maniera esponenziale, così come è successo nel caso del M5S, che, attraverso Internet, è stato di fatto protagonista di un passaggio importante della nostra storia recente, che storici e sociologi della comunicazione non potranno non studiare approfonditamente nei prossimi decenni, quando appunto i fatti odierni della cronaca saranno consegnati all’opera della storiografia.
È chiaro che, in entrambi i casi citati, si è prodotta una distorsione del fenomeno democratico, dal momento che ciò che doveva essere un semplice strumento si è trasformato nel fine stesso della vita politica.
Non si sono compiuti, pertanto, dei passi in avanti nel rapporto fra la pubblica opinione e lo Stato, visto che la classe dirigente, che si è venuta a formare con tali meccanismi, ha dimostrato di possedere strumenti limitati da un punto di vista culturale, per evidenti limiti nel processo della sua selezione.
Peraltro, ai meccanismi berlusconiani e grillini si sono adeguati, progressivamente, anche gli altri partiti, nel tentativo di non apparire secondi nella gestione di metodi apparsi, per lo più, elettoralmente vincenti.
In particolare, il nuovo gruppo direttivo del Centro-Sinistra, legato alla stagione renziana, ha intensificato l’uso a scopo elettoralistico dei media, al fine di acquisire consenso nelle medesime aree nelle quali il Centro-Destra, storicamente, ha ricevuto voti copiosi nei decenni precedenti.
Così facendo, si è realizzata una vera e propria assimilazione della classe dirigente di tutti i partiti o, almeno, di quelli presenti in modo più significativo nell’agone parlamentare: non a caso, in tale contesto non può non acquisire ridondanza il concetto di “omologazione”, visto che le cose, che venivano dette da Pasolini negli anni ’70, hanno trovato compiuta realizzazione dopo gli anni ’90, nel momento in cui la forma mediatica ha prevalso, nettamente ed impropriamente, sull’importanza e sulla pregnanza dei contenuti.
Cosa fare per invertire la rotta?
La risposta non è di facile individuazione rispetto ad un quesito siffatto, perché le dinamiche della politica sono una mera cartina di tornasole della società odierna e questa, invero, non è riformabile, sic et simpliciter, a colpi di decreti legge o di disposizioni governative.
Forse, si è creata una società dell’apparire, che prevale tragicamente su quella dell’essere?
Forse, si è creato un contesto sociale nel quale la logica del facile consumo prevale su quella della fruizione, della stratificazione e della maturazione di idee forti?
Forse, è questo solo il frutto del pensiero debole dei nostri ultimi anni?
Quesiti, questi, tutti di grande spessore, che però meriterebbero di essere affidati, per la risposta, a filosofi e teologi e non, certo, ad improvvisati esperti della comunicazione, bravi solo nell’incentivare il mercato delle parole di nessun valore semantico, tipiche dei parolai di infimo livello culturale.
Rosario Pesce