Quella fornita dal Governo Renzi, che impone, con il voto di fiducia, il varo della nuova legge elettorale, è la testimonianza più esplicita della crisi odierna del sistema politico italiano; infatti, solo in altre due occasioni, nel 1923 e nel 1953, in Italia il potere esecutivo ha cercato di imporre il meccanismo elettorale, ricorrendo alla fiducia, che – come ben sappiamo – comprime il dibattito parlamentare e, di fatto, toglie libertà al deputato, che, vincolato da una logica di appartenenza al suo Dicastero di riferimento, ovviamente non può votare contro un provvedimento legislativo, che volentieri non approverebbe.
In quelle due circostanze, che abbiamo menzionato, il Paese viveva una crisi profonda della rappresentanza: nel primo caso, il Fascismo incipiente cercava il metodo migliore per arrivare ad una facile vittoria elettorale, che avrebbe dovuto legittimarlo a pieno dopo la Marcia su Roma, mentre, nel secondo caso, la Democrazia Cristiana tentava di blindare la propria maggioranza, ben sapendo che il blocco social-comunista, se avesse vinto in Italia, avrebbe determinato la rottura di un sistema internazionale di relazioni diplomatiche, che era stato sancito solennemente ad Yalta.
Oggi, invece, pur non trovandoci di fronte a fatti della medesima gravità, il Presidente del Consiglio si sente necessitato a porre la fiducia su di un provvedimento, che, peraltro, qualora fosse varato dal Parlamento, sarebbe certamente attenzionato dalla Corte Costituzionale, perché i profili di incostituzionalità dell’Italicum sono evidenti, dal momento che la nuova legge elettorale aggira, ma non soddisfa le indicazioni fornite dalla Consulta, elaborate quando questa bocciò il Porcellum.
Pertanto, perché Renzi opera in un modo così improvvido, che mette in pericolo, finanche, l’unità del suo stesso partito?
La prima risposta plausibile è, già, nella domanda: egli cerca il contrasto duro con la minoranza del PD, perché è ormai insofferente nei suoi riguardi e, soprattutto, intuisce che, solo dopo l’eliminazione sistematica di tutti i suoi rivali interni, egli potrà sentirsi compiutamente il padre-padrone del partito.
Ma, mettere a rischio la salute delle nostre istituzioni per regolare un conto lasciato in sospeso, sembra invero un’operazione per nulla intelligente, visto che, in tal caso, si gioca con i destini del Paese e non con quelli solamente del PD, che, per quanto importanti possano essere, invero ci stanno molto meno a cuore del futuro della democrazia italiana.
D’altronde, c’è un fattore ulteriore, di cui bisogna tenere conto: la nuova legge elettorale, qualora pure fosse varata nei prossimi giorni, potrebbe essere operativa concretamente non prima del mese di luglio del 2016, per effetto di una clausola – inserita nel corso del dibattito al Senato – che vincola l’introduzione del nuovo meccanismo di voto all’approvazione della riforma costituzionale, per cui, se dovesse essere sciolto il Parlamento nei prossimi mesi, si andrebbe comunque a votare con la legge proporzionale, che è il frutto della sentenza della Consulta, che cancellò il Porcellum.
Quindi, la forzatura, che ha operato Renzi, può divenire inefficace, qualora – come appare probabile – la legislatura in corso non dovesse arrivare alla sua scadenza naturale – il 2018 – o dovesse, comunque, concludersi prima dell’estate del prossimo anno.
Pertanto, ancora più scellerata ci sembra una decisione, che accelera viepiù il processo di decomposizione di un partito, che, invece, senza esporsi a criticità simili, avrebbe potuto continuare a governare il Paese, risolvendo i problemi economici e lasciando cadere il dibattito sulla legge elettorale, fissandolo magari per un tempo più propizio, quale avrebbe potuto essere, ad esempio, l’ultimo anno dell’odierna legislatura.
Nulla di tutto ciò: il Presidente del Consiglio, invece, ha voluto fare l’ennesima prova muscolare con la minoranza del PD e con il Parlamento intero, allo scopo forse di mostrare agli Italiani la piena padronanza della situazione istituzionale attuale, nonostante i livelli di gradimento della sua azione governativa siano scesi in modo significativo, se sono attendibili i dati statistici dei rilevamenti fatti da diversi istituti demoscopici.
Non sappiamo, invero, cosa possa avere in mente Renzi, ma ci sembra che il suo agire sia, oggi, guidato da un istinto famelico verso i suoi oppositori, interni ed esterni al PD, che invero non dovrebbe mai contrassegnare l’azione di uno statista, che, in una Repubblica parlamentare, come la nostra, dovrebbe sempre rispettare il dissenso e, quindi, non dovrebbe mai mortificare chi la pensa in maniera divergente e, talora, contraddittoria rispetto al proprio punto di vista.
Invece, l’agire renziano configura, di fatto, una riforma costituzionale, che mai è stata realizzata in punta di diritto: il passaggio, cioè, al presidenzialismo e, dunque, ad una forma di governo nella quale il potere esecutivo, ineluttabilmente, predomina rispetto a quello parlamentare, in virtù di un’investitura popolare del Premier, che è più forte di qualsiasi mandato rappresentativo affidato a deputato o senatore.
A volte, benché la democrazia italiana abbia compiuto molti passi in avanti dal 1948 in poi, ci sembra che, invece, sia in atto una tendenza retrograda, che cozza molto pericolosamente con le istanze del parlamentarismo più evoluto.
Forse, la nostra opinione presenta tratti di ridondanza, ma certo gradiremmo molto un sistema istituzionale nel quale non sia necessaria la fiducia per approvare una legge elettorale, che – qualunque essa sia – non può, di per sé, risolvere i problemi di un Paese, che, negli ultimi venti anni, ha tentato molto spesso di realizzare un’idea tanto confusa, quanto dannosa di cambiamento, in assenza di un’autentica via maestra, che potesse essere riconoscibile e, dunque, percorribile in modo efficace ad opera della Destra, come della Sinistra.