È una festa che ha, ancora, senso quella del 1 Maggio, visto che il lavoro non c’è più?
È, questo, il quesito che si pongono molti da diverso tempo, visto che, per davvero, il lavoro è sempre più merce rara e, quando c’è, è di pessima qualità perché è per lo più a tempo determinato e, soprattutto, senza i diritti che erano stati sanciti dallo Statuto del 1970.
È chiaro che la globalizzazione ha imposto una trasformazione notevole delle modalità e dei regimi lavorativi, per cui non esistono più i diritti che un tempo, invece, rendevano molto più accettabile la condizione di vita dei lavoratori.
È ovvio che una società con molti più disoccupati ovvero con molti più lavoratori precari non può che essere iniqua, in quanto il lavoro non solo rende migliore la vita concreta di una persona, ma soprattutto fa sì che quell’individuo possa sentirsi alla pari con gli altri, quando viene a trovarsi nel consesso sociale.
Ma, la globalizzazione è un processo irreversibile e, come tale, diviene difficile ipotizzare che si possa, a breve, tornare alle tutele di un tempo storico che, per quanto recente sia, sembra – invece – remoto.
D’altronde, intorno al lavoro che non c’è o che, se c’è, è precario e senza diritti, si accende il vero dibattito da qualche tempo, visto che, per sua definizione, la politica deve trovare le giuste soluzioni per rendere più vivibile la vita degli esseri umani.
Si può, allora, immaginare che i processi di globalizzazione ripongano in essere le condizioni che non ci sono più?
O si può sperare che, in un futuro prossimo, l’intervento dello Stato ricrei uno status lavorativo per migliaia di giovani ed anziani?
È ovvio che, quando viene sancito il trionfo delle ragioni del capitale su quelle della politica, diviene difficile difendere gli interessi dei più deboli, quali sono appunto le migliaia di lavoratori, anche forniti di titolo di studio, che devono mendicare un contratto a tempo determinato e, spesso, in particolare devono condurre un’attività lavorativa di tipo subordinato con i medesimi diritti di un lavoro autonomo.
Peraltro, è questa condizione non solo italiana, ma di tutto il mondo, visto che la globalizzazione ha imposto la riforma, di fatto, del regime di lavoro, pur in presenza di tutele che, solo, in parte sono state formalmente cancellate.
Ed, allora, è chiaro che le giovani generazioni ovvero quelle dei cinquantenni, che sono stati espulsi dalla produzione, non possono che guardare con un certo sentimento di inquietudine al loro futuro prossimo, perché è ineluttabile che il senso della precarietà, a volte, sia anche più terrificante di quello dell’impotenza.
Ma, il mondo potrà finalmente evolvere verso una condizione migliore per le nuove generazioni o saremo costretti a festeggiare, nei prossimi anni, altre festività del 1 Maggio in assenza sia del lavoro, che dei lavoratori?