di Rosario Pesce
Quando muore un artista del livello di Bernardo Bertolucci, non solo una nazione intera, ma l’Occidente dovrebbe rendergli omaggio, perché attraverso il linguaggio del cinema è riuscito, in vita, a fare due rivoluzioni: quella estetica e quella della morale comune.
Per la prima, è evidente il merito di Bertolucci: il nostro cinema, agli inizi degli anni Sessanta, stava concludendo la sua parabola trionfante, prodottasi con il Neo-Realismo post-bellico, e necessitava di contenuti nuovi, oltreché di una forma diversa.
Bertolucci, uscendo dalla dimensione italiana ed entrando in quella parigina, riuscì a far dimenticare i poveri e gli umili di De Sica, per portare in scena o i grandi eroi della storia mondiale – come nel caso del protagonista de L’Ultimo Imperatore – o quelli più vicini a noi di Ultimo Tango a Parigi, eroi borghesi con una venatura esistenzialistica, destinati a combattere contro le proprie paure e contro le inibizioni di una società reazionaria.
Tale rivoluzione del gusto estetico – non dimentichiamoci che fu il primo regista a subire la censura in modo molto forte, come d’altronde il suo maestro Pasolini, di cui fu collaboratore nella regia e nella scrittura cinematografica – è stata il vero segno della svolta dell’arte italiana, finalmente uscita da una dimensione localistica e divenuta arte di respiro mondiale, capace di esprimere un linguaggio che, in particolare negli Stati Uniti d’America, hanno amato oltremodo.
D’altronde, in questa rivoluzione, Bertolucci non era da solo: il suo alter ego, Antonioni, è stato più americanofilo di lui e forse meno ideologizzato, ma altrettanto potente nella resa artistica.
Non si può dimenticare, infatti, l’origine emiliana di Bertolucci, che ha definito il suo essere “comunista” nelle arti, anche se in modo molto diverso dal Neo-Realismo, che appunto Togliatti aveva sposato: Bertolucci era pur sempre il figlio del più grande poeta del secondo Novecento, Attilio, che aveva saputo coniugare le ragioni della rivoluzione rossa con quelle dell’intimismo tipico di terre, che avevano prodotto tantissimo in termini di dire e di fare poetico.
La sua malattia, che lo ha ridotto sulla sedia a rotelle negli ultimi anni di vita e che ne ha ridotto la capacità poetica, lo ha ancora di più associato ad Antonioni, di cui ha condiviso le medesime tracce di genialità.
Con la sua morte si chiude, per davvero, la parabola del grande cinema del Secondo Dopoguerra e, molto probabilmente, il periodo aureo della cultura italiana: in fondo, egli si è allontanato da noi come i suoi protagonisti di Ultimo Tango a Parigi, portatori di un piacere unico, che però si sposa, necessariamente, con un oblio tanto triste, quanto decadente.