La morte di un attore è, sempre, una notizia tragica, perché quando va via dal palcoscenico una maschera, il mondo è un po’ meno libero di prima.
Oggi, purtroppo, commentiamo la morte di un attore, Paolo Poli, che non solo è stato uno straordinario protagonista del teatro italiano del Novecento, ma un uomo che ha fatto della sua diversità un patrimonio del proprio essere, andando ben oltre gli schemi conformistici del suo tempo.
Non a caso, quando parlava di sé, usava sempre il genere femminile, a dimostrazione che il suo stare in teatro lo aveva disinibito, aiutando a porre se stesso dinnanzi alla verità che altri, invece, non avrebbero mai conclamato in modo così manifesto.
Ha frequentato i grandissimi registi italiani, da Pasolini a Visconti; è stato amico e confidente delle più grandi attrici, dalla Betti alla Proclemer; è stato frequentatore, sia in privato che in pubblico, di scrittori di fama, da Eco a Palazzeschi.
Con la sua morte, va via forse l’ultimo, autentico attore del teatro italiano del secondo Novecento, di quella generazione di artisti, che hanno messo in scena Pirandello, così come i grandi autori stranieri, portando nel nostro Paese una lingua internazionale, qual è quella della recitazione.
In più, chiaramente, nel caso di Poli, è divenuta sostanza artistica la sua stessa diversità, mai ostentata per mero capriccio o per ludus teatrale, ma sempre messa in gioco per indicare la doppiezza della vita, come quella dello stare in palcoscenico.
La recitazione, non a caso, per molti secoli è stata l’arte più osteggiata dalla Chiesa, perché considerata una forma demoniaca, una trasformazione perversa della natura umana, riprodotta sotto forma di letteratura non intimista.
Con attori, come Poli, il teatro è divenuto compiutamente, invece, un fatto democratico, perché è stato permesso, sul palcoscenico, ciò che nella società comune non sarebbe stato mai possibile: un individuo, dotato di una natura non univocamente identificata dalla società, è assurto ad un ruolo di protagonista, facendo delle proprie qualità intellettuali un tutt’uno con l’identità, altrimenti nascosta, della propria intimità.
Il teatro è, per definizione, l’arte della finzione, che – nei casi come quelli di Poli – è divenuta disvelatrice di un’intelligenza straordinaria e di una cultura fuori da ogni schema convenzionale.
Dopo la morte di Luca De Filippo, ci troviamo di fronte all’ennesimo lutto nel mondo del teatro, a dimostrazione, forse, del fatto che stia scomparendo, progressivamente, una generazione di grandissimi attori e stia nascendo un momento artistico profondamente diverso rispetto a quello che abbiamo vissuto, senza soluzione di continuità, negli ultimi cinquant’anni.
Sarà un teatro migliore quello che si prospetta privo di tali firme?
Molto probabilmente, la risposta non può che essere negativa, ma invero mai come in questo caso la vita teatrale è il manifesto più sincero di ciò che sta succedendo in un Paese, come il nostro, sempre più privo di slanci vitali e di conati di autentica, indiscutibile nobiltà espressiva.