di Maria Rusolo
“Il Futuro è un’ipotesi, una congettura, una supposizione, cioè una non-realtà. Tutt’al più, una speranza alla quale tentiamo di dar corpo coi sogni e le fantasie.”
All’inizio del nuovo anno siamo sempre carichi di buoni propositi, spinti da una forza superiore ad agire diversamente da quanto abbiamo fatto precedentemente, mossi dall’onda delle emozioni al cospetto della chiusura di una vita e del vagito di un bambino che piano piano apre gli occhi e che si appresta a scrivere una nuova canzone.
Una melodia diversa che ci spinge a pensare che agiremo con maggiore consapevolezza verso chi ci è vicino, verso chi ha bisogno, verso la nostra stessa esistenza. E’ come se ci spogliassimo di una coperta troppo pesante, che ci tiene al sicuro nelle nostre flebili sicurezze, ma che finisce per strozzarci ogni respiro in gola. Si aprano, quindi le finestre, si faccia passare l’aria, si dia spazio a nuove intuizioni, a nuovi colori, a nuovi momenti, ma quanto dura questo spirito ritrovato, prima che la vita ci inghiotta nuovamente nella sua spirale di presunta stabilità e paura, quella paura del cambiamento che ci blocca da sempre, e che ci costringe a restare con chi non amiamo, a lavorare per uno stipendio sicuro, a camminare solo per strade illuminate, ad indossare sempre le stesse scarpe, per timore di cadere o di non avere un’andatura veloce.
L’abitudine uccide o qualche volta ci lascia sopiti, “meglio poco che niente”, dicevano i nostri nonni o ancora ” chi troppo vuole nulla stringe”, ma erano quelli altri tempi, tempi in cui la fame ed i pidocchi, le privazioni della guerra avevano spinto le generazioni precedenti ad agire con circospezione, ad accettare quello che si pensava non si potesse cambiare. Il piccolo orto od il pollaio che riuscivano a sfamare e nutrire come metafora di una vita vissuta ai margini, fuori di ogni possibile incidenza sui cambiamenti.
Hanno subito spesso le trasformazioni sociali, però con lo scopo di spingere altre generazioni a fare meglio, a servirsi del progresso per migliorarsi, a non rimanere esclusi come era accaduto a loro. Quando il tepore del focolare domestico sia divenuto anche per i giovani un obiettivo non l’ho ben capito, o forse si dovrebbero leggere le parole dei testimoni della rivoluzione culturale e del ’68. Quanti errori in nome della libertà, quante scelte compiute meno per convinzione e molto di più per una apparente volontà di vedersi riconoscere un ruolo da quella borghesia che rifiutava ed escludeva, timorosa di perdere i privilegi acquisiti nel tempo.
Ad un certo punto ci siamo imborghesiti ed è diventato fondamentale avere più che essere, e la normalità è divenuta patologica, parafrasando Eric Fromm. Ed al cospetto delle immagini che giungono dal mondo, non è possibile fare spallucce, bisogna essere consapevoli che le battaglie di casa nostra hanno effetti che vanno oltre le nostre pur minuscole aspettative, non si può sperare stancamente che gridare o che imbracciare un forcone sia una soluzione decorosa ed efficace, bisogna uscire dalla terra dei topi, dal sottosuolo, lanciandosi in una corsa che non ammette più sospensioni o moti di ” pancia”.
Che sia finalmente l’anno dello studio, della competenza, della passione bruciante, che sia l’anno delle nuove generazioni, del futuro e non di un presente stagnante e di un passato che ha esaurito tutti i propri insegnamenti. Non possiamo più permetterci il chiacchiericcio, la disuguaglianza, la non parità tra i generi, l’offesa gratuita, il manico di scopa brandito come arma in un tweet.
“O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato,
la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato,
vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta,
occhi seguono l’invitto scafo, la nave arcigna e intrepida;
ma o cuore! Cuore! Cuore!“