di Rosario Pesce
È chiaro che, nel nostro Paese, la politica sia da rifondare: in particolare, deve essere ricostruito il rapporto virtuoso fra gli elettori e le classi dirigenti, che è del tutto saltato nel corso dell’ultimo ventennio, per effetto di Tangentopoli e di ciò che è venuto subito dopo il biennio 1992/94.
Gli esiti del voto di marzo e quelli delle amministrative dimostrano che il potere logora chi ce l’ha, per mutuare un’espressione di andreottiana memoria.
Infatti, mentre prima veniva premiato chi era al Governo e gestiva fette rilevanti di potere, oggi vince chi è all’opposizione e si muove con la capacità di mobilitare le masse intorno ad obiettivi, che sono – a volte – meramente di propaganda, privi del tutto di efficacia concreta.
È il caso dei vitalizi dei parlamentari e della riforma degli stessi voluti da un partito in particolare, che determinerà non la loro abrogazione, ma semplicemente il ricalcolo con un criterio di natura contributiva, che prenderà il posto di quello retributivo, come già è avvenuto per le pensioni dei dipendenti pubblici.
Una misura, quindi, che non comporterà un notevolissimo gettito finanziario per lo Stato, ma che è usata ad arte per coprire il vuoto dell’elaborazione politica.
È ovvio che, per tale strada, fra la gente comune aumenterà l’odio verso i ceti dirigenti (nessuno ha la forza necessaria per difendere i vitalizi), ma i vantaggi concreti per l’Erario e quelli, ancora più importanti, per la qualità della nostra democrazia dove sono?
I milioni risparmiati potranno mettere in circolo un’economia ferma?
Oppure potranno dare ossigeno ai ceti meno abbienti e più colpiti dalla crisi?
È ovvio che quei soldi risparmiati – calcolando, anche, i contenziosi che ne deriveranno – non serviranno a rialzare i più deboli e poveri, ma certo sono uno spot per chi li ha voluti fortemente.
Su queste basi si può rifondare la politica o bisogna ragionare su di una prospettiva più irta e problematica?
Bisogna, però, necessariamente ripartire da un dato: la politica – quella mondiale e non solo quella relativa al nostro Paese – è profondamente delegittimata per effetto della globalizzazione, per cui le risorse economiche, che uno Stato nazionale è in grado di mobilitare, sono pochissima cosa rispetto a quelle che può, invece, mettere in moto un imprenditore o una multinazionale o un fondo di investimenti.
Rispetto ad una tale crisi, è chiaro che le risposte della politica saranno, sempre, insoddisfacenti e parziali: solo il mercato, oggi, ha le risorse necessarie per mettere in moto cicli virtuosi, ma sappiamo bene come il privato si muove nell’ottica dell’interesse individuale e non di quello collettivo, per cui, per tal via, difficilmente il debole potrà emanciparsi dal bisogno e dalla condizione di disagio, che vive.
Ed, allora, vogliamo – tutti – una politica che non si limiti a fare spot pubblicitari tanto ingannevoli, quanto inefficaci nel concreto?
Quello sarebbe l’auspicio più autentico, ma siamo certi che il popolo ha la maturità per dirimere il vero dal falso, la propaganda dall’analisi seria dello stato attuale?