di Rosario Pesce
La sensazione, sempre più forte, è quella inerente ad un obiettivo distacco fra il mondo della politica ed i problemi reali delle persone comuni, che ogni giorno combattono la loro sfida per conseguire gli obiettivi, almeno, minimi della propria esistenza.
Una siffatta percezione – giusta o sbagliata che sia – ha, evidentemente, condizionato l’esito delle elezioni non solo nel nostro Paese, visto che, ormai, in buona parte dell’Europa la pubblica opinione tende a prendere le distanze da chi ha governato e sposa la causa di chi, invece, si propone per lo più con messaggi populistici e, meramente, demagogici.
Un simile stato di cose non è novità degli ultimi mesi, ma da qualche anno gli elettori si allontanano dalla vita istituzionale, a tal punto che la diminuzione dei tassi di partecipazione al voto ne è un sintomo molto forte ed evidente.
Ma, cosa fare di fronte ad un disagio di tali proporzioni, se la politica non può vincere la sfida essenziale, quella contro un sistema economico che crea iniquità e che, in particolare, è ramificato a livello mondiale?
Un tempo, ai politici era affidata la funzione di mediazione sociale tra il capitale e la forza lavoro, per cui, attraverso lo strumento della legislazione nazionale, sono state date risposte importanti ad interi ceti e generazioni che aspiravano ad un futuro migliore del presente e del passato.
Oggi, invece, la politica non è più in grado di fare questo, perché con gli scarsi strumenti della legislazione nazionale e con le parve risorse della finanza pubblica non è più possibile mettere in piedi un serio piano di ridistribuzione delle ricchezze, che sia in grado di soddisfare e rimuovere, dalle fondamenta, le istanze ed i bisogni di quanti sono esclusi dalla società dei consumi.
Pertanto, i cittadini si allontanano dalle istituzioni e l’unica argomentazione, che viene usata contro i politici, è quella dell’eccessivo onere finanziario derivante dalle loro mansioni svolte all’interno dello Stato, come se la diminuzione o l’eliminazione di un’indennità di un parlamentare o di un consigliere regionale possano risolvere a monte il problema dell’equità sociale o quello del risanamento delle pubbliche finanze.
È ovvio che non è questa la strada maestra per conseguire un miglioramento dello status quo, ma la demagogia ed il populismo, in momenti storici come quello che stiamo vivendo, non possono che prevalere su qualsiasi argomentazione più razionale ed all’insegna del buon senso e della ragionevolezza.
Per tal via, il reale e la politica si distinguono nettamente fra loro e coloro che sono, finanche, intenzionati ad offrire il proprio contributo alla crescita della comunità, non possono che fare uno, se non due passi indietro, dal momento che, invero, nessuno può essere masochista a tal punto da proporsi per ruoli che implicano solo oneri ed alcun onore.
Forse, era questa la società che si intendeva costruire?
Certo che no, ma – come in ogni altro ambito – si deve fare il pane con la farina che si ha a disposizione, come si dice in gergo, per cui è ineluttabile che la formazione della classe dirigente dei prossimi anni non potrà non partire da simili, infauste premesse logiche.