Ero più che convinto che, dopo le fatiche infrasettimanali e la batosta psicologica patite all’Allianz Arena, la Juventus pagasse dazio in qualche modo in campionato, considerato pure che ad attenderli c’era un derby infuocato contro il caparbio e poco arrendevole Torino. In effetti, il primo tempo non ha confermato l’auspicio della vigilia. La squadra granata, ben al di sotto della decenza, si è gentilmente concessa all’avversario più blasonato.
All’inizio della ripresa, invece, accade l’imponderabile. Alex Sandro, forse il punto debole della retroguardia di Allegri, commette una fesseria colossale: fallo da tergo su Bruno Alves lanciato a rete. Rizzoli è costretto a fischiare il rigore. E, a norma di regolamento, avrebbe dovuto pure ammonire il terzino bianconero a cui, peraltro, già era stato sventolato in faccia un cartellino giallo nel corso della partita. In pratica, andava estromesso dalla contesa.
Bonucci, fiutando il pericolo, con atteggiamento da gradasso e sguardo da attaccabrighe, s’avventa sull’arbitro appoggiandogli la fronte sulla tempia. Apparentemente per contestare la decisione ma, in realtà, per sviare i sospetti e condizionare il direttore di gara. Detto e fatto: si becca lui l’ammonizione per proteste e si “immola” al posto del compagno. Naturalmente, Rizzoli, molto attento a certi equilibri, si è pigramente adeguato. Il Toro segna dal dischetto, rientra in partita ma si continua undici contro undici. A questo punto, ecco che s’accende la spia. La Juventus arranca, teme un’altra rimonta, sente l’acido lattico nei muscoli e le tossine di Monaco nel cervello. Non riesce più ad arginare il Torino: modesto nel primo tempo, arrembante nel secondo.
Ed ecco che si arriva al fatidico minuto cinquantasette che è forse quello decisivo per la corsa al titolo. Bruno Alves (ancora lui!) semina tutta la difesa juventina, mettendo Maxi Lopez in condizioni di battere a rete solo davanti all’invincibile Buffon. L’attaccante fa il suo dovere, il guardalinee no. Annulla il gol per un fuorigioco inesistente. Eppure l’indicazione per gli assistenti è chiara: nel dubbio si lascia giocare. Invece, il Sig. Tonolini è così sicuro che sventola il suo vessillo in faccia al Comunale in tripudio e applica un altro brocardo non scritto: in dubio pro Juve. È fin troppo evidente che la capolista è cinica quanto basta e approfitta puntualmente del doppio regalo. In breve, con un Torino ormai depresso, chiude la partita.
Però, resta una macchia indelebile su questa vittoria. Ormai siamo molto al di là del “pensar male” di andreottiana memoria. La Juventus è recidiva con la complicità della stampa nazionale che celebra fino alla noia il record di Buffon ma non sottolinea le gravi carenze dell’arbitro e dei suoi assistenti. Hanno commesso errori madornali, decisivi, imperdonabili.
In settimana, Marotta aveva borbottato contro presunti torti subiti in Baviera: vogliamo essere tutelati in Europa. Come in Italia – verrebbe da dire – dove il rude Bonucci (sempre lui!) si salva dalla squalifica per tredici giornate consecutive. Fino alla partita di ieri nella quale decide lui stesso che è il momento di scontarla questa squalifica: contro l’Empoli in casa, non alla successiva a San Siro contro il Milan che ancora qualche grattacapo glielo può creare.
Ha ragione Marotta. In Europa, non trova direzioni di gara così ortodosse cioè attente a non spostare le gerarchie. Nel vecchio continente, soprattutto dopo il tonfo dell’impresentabile Platini (la cui storia meriterebbe un romanzo d’appendice), non fanno sconti e quello che, a sud della Svizzera è tollerato, oltre le Alpi viene sanzionato. Tanto è vero che la Juventus non ha – ma giusto per usare un generoso eufemismo – una bacheca europea tanto ricca come quella nazionale (a voler tacere, tra l’altro, dell’esito della tragica finale dell’Heysel e della sentenza della Cassazione sul doping che getta un’ombra imbarazzante sulla vittoria del 1996 a Roma: anche questo materiale per romanzi d’appendice). Due coppe su un numero imprecisato di scudetti vinti sul campo: davvero poca roba. Nessuna da quando la Champions League si gioca con la nuova formula.
Questo è il loro nervo scoperto. Tanto è vero che l’anno scorso sempre lo sfrontato Bonucci, negli spogliatoi del San Paolo, con la sua solita pacatezza, sbottò dinanzi ai giornalisti dopo che gli era stata rivolta una domanda un po’ impertinente sul diverso trattamento che ricevono all’estero: «L’unica differenza è che la Juve è negli ottavi di Champions League mentre voi del Napoli siete solo in Europa League». Una classica risposta alla Bonucci. Come potrebbe essere alla Marotta o all’Allegri. La risposta degli intoccabili. Almeno in Italyland. Che, peraltro, quella sera vinsero al San Paolo con un gol di Caceres in macroscopica posizione di fuorigioco. Un noiosissimo déjà-vu.
Alla fine, se si sommano tante cose, anche a prima vista insignificanti (non ultimo il fatto che la Juve gioca sempre prima del Napoli anche ora che non ce n’è più la necessità), il destino di questo campionato sembra ormai scontato.
La Juventus vincerà il suo ennesimo scudetto (ci scuserà il lettore ma ho perso il conto) e il Napoli, presumibilmente, s’accontenterà della seconda piazza. Eppure i secondi non saranno gli sconfitti. D’altronde, la meravigliosa truppa di Sarri risponde sempre sul campo. Colpo su colpo. Come è successo anche ieri. Il Genoa ha giocato con un livello di intensità che la maggior parte degli avversari della Juventus non è in grado di mettere in campo per sopperire all’innegabile gap tecnico.
Ecco, dunque, che la risposta più bella alla farsa del pomeriggio è venuta da una partita di rara bellezza, nonostante alcuni errori (ma di solito sono gli sbagli a creare le premesse per i gol e lo spettacolo), decisa da una prodezza, una gemma, un tiro da fuoriclasse.
Gonzalo Higuiain è evidentemente un marziano, uno che sorvola pure sulle piccole astuzie. Lo marcano sempre in tre, lo braccano, eppure lui intravede stretti sentieri nei quali infilare le sue traiettorie prodigiose. Il secondo gol sfida le leggi della fisica, l’impenetrabilità dei corpi, la cinetica, la balistica, in generale la logica. Una follia lucida ha armato il suo piede destro. Di fronte alla linea Maginot genoana, ha disegnato una parabola imprendibile anche per il Perin imperforabile di ieri sera. Con la sponda del palo ha messo il pallone alle spalle del portiere rossoblu e ha tenuto il Napoli in corsa. Sempre a meno tre dai Predestinati (la distanza che ha determinato la deviazione di Albiol sul tiro di Zaza). La squadra di Sarri, che esprime un calcio meraviglioso, una qualità di gioco inarrivabile in Italia, è il virus del Sistema, una strenua forma di Resistenza al Potere. Non può essere un’utopia perché l’Italia, storicamente e politicamente, vive di distopie. Non apprezza le rivoluzioni culturali né i cambiamenti o gli stravolgimenti. Non è un Paese per il Leicester. È un Paese che nasce e muore democristiano: l’happy end è vietato. Comandano sempre i soliti. E chi comanda vince. Al Napoli non resta che dar fastidio alla Juve fino all’ultima giornata, rimandargli la festa, reagire, ogni volta, a una vergogna con una prodezza.