Gli esiti della riunione dei gruppi parlamentari del PD ci restituiscono l’immagine di un partito diviso in correnti in modo patologico: la forzatura, fatta da Renzi, in merito all’approvazione della legge elettorale, senza ulteriori mediazioni con i leader della minoranza, ha enfatizzato ulteriormente le divisioni, che – in modo carsico – erano già presenti da tempo.
La defezione di circa cento parlamentari mette vieppiù in rilievo la condizione di una formazione che, a tratti, appare balcanizzata; infatti, la stessa minoranza non è un corpo coeso, ma al suo interno presenta sottogruppi, che potrebbero – al momento del voto – riservare delle sorprese di non poco conto.
Infatti, bersaniani, civatiani, cuperliani, fassiniani, dalemiani non costituiscono un’unica corrente compatta, ma si muovono con dinamiche, che non sono sempre del tutto convergenti.
Stando comunque ai numeri dei gruppi, la maggioranza in Aula non dovrebbe esserci, a meno che non si verifichino condizioni, che rovesciano lo status quo ante: o il gruppo dei deputati, vicini al dimissionario Speranza, deciderà di votare in favore dell’Italicum o Renzi sarà chiamato, per l’ennesima volta nel corso di questa legislatura, a ricorrere al sostegno decisivo di Forza Italia, in particolare degli uomini prossimi a Verdini, che, in nome della comune origine toscana, non ha mai messo in dubbio il suo appoggio esterno al Dicastero odierno, finanche dopoché Berlusconi ha deciso di rompere il Patto del Nazareno con il PD renziano.
Ipotizzare, d’altronde, che il Capo dello Stato possa consentire il ricorso al voto di fiducia appare improponibile, visto che tutte le opposizioni verrebbero così tagliate fuori da un dibattito, che non può essere compresso con una procedura di votazione, che serve a rinsaldare rapporti interni ad una maggioranza, che – in tal caso – è, invece, fluttuante e scarsamente definita, come dimostra la concomitante vicenda delle elezioni regionali.
La scelta di Alfano e di Casini di non sostenere in tutte le regioni, dove si andrà al voto il prossimo 31 maggio, il candidato del PD pone un ulteriore problema: quanto durerà un Governo, che si è indebolito moltissimo dopo l’elezione del Capo dello Stato, in assenza di un accordo organico con Berlusconi?
Gli interrogativi non mancano, visto che l’ipotesi del voto anticipato non sarebbe, oggi, del tutto peregrina, qualora il Governo non fosse in grado di chiudere, positivamente, la vicenda decisiva dell’approvazione dell’Italicum.
Peraltro, i guai del PD si aggiungono a quelli del Centro-Destra, che è letteralmente imploso a seguito dei fatti pugliesi, che hanno rimarcato come il potere berlusconiano sia – ormai – desueto, perché le classi dirigenti locali, guidate in quel caso da Fitto, si sono ribellate ad una volontà, che – solo pochi anni or sono – nessuno avrebbe osato contraddire, a testimonianza del fatto che l’area moderata italiana è alla ricerca di nuovi equilibri e, soprattutto, di un rinnovato leader, che possa adeguatamente rappresentarla alle prossime elezioni politiche, che sono – a nostro parere – molto più vicine di quanto non possa sembrare.
La stessa formazione di Alfano non solo è al centro di un’attenzione mediatica notevole, per le vicende di natura giudiziaria che hanno coinvolto alcuni suoi esponenti di spessore, come nel caso dell’ex-Ministro Lupi, ma soprattutto vive un momento molto forte di dialettica interna, dato che una parte consistente di quel partito non vuole continuare a fare la stampella di Renzi, ma intende partecipare, come socio fondatore, alla nascita di un nuovo Centro-Destra, che debba – in prospettiva – porsi come forza antagonista del PD renziano, entro uno schema di azione più consono con le dinamiche europee ed, apertamente, in contraddizione con la stagione delle cosiddette Larghe Intese, che – purtroppo – continua ininterrottamente dai tempi del Dicastero Monti, quando il Governo, presieduto dall’ex-rettore della Bocconi, venne sostenuto sia da Bersani, sia da Berlusconi su invito esplicito dell’allora Presidente della Repubblica.
Come si intuisce, quindi, il sistema politico è giunto ad un punto di svolta: le vicende romane, congiunte con quelle delle Regioni, nelle quali si voterà, determineranno un sisma, che cambierà radicalmente la scena istituzionale e parlamentare, così da creare – forse – le premesse per la nascita compiuta della Terza Repubblica, dopoché il passaggio dalla Prima alla Seconda non solo ha accentuato le problematiche degli Italiani, ma soprattutto ha drammatizzato le patologie del sistema repubblicano, ormai sempre più delegittimato da riforme mancate o, talora, laddove entrate in vigore, peggiorative della condizione preesistente.