Sono trascorsi tre anni dalla morte di Pino Daniele e poco o nulla ha fatto l’Italia per ricordare, seriamente, uno degli artisti più eclettici degli ultimi decenni, in grado di contaminare la melodia tradizionale della musica partenopea con i ritmi della musica afro-americana, che era arrivata sulle nostre sponde dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
Peraltro, ricordando Pino Daniele, si segnalerebbe ulteriormente la grande vivacità di una città, come Napoli, che ha dato vita alle più rilevanti avanguardie della musica leggera italiana della seconda parte del Novecento, visto che ogni artista “controcorrente” o proviene dal capoluogo partenopeo o, comunque, ha fatto i conti con la tradizione della musica napoletana.
Tutto ciò dimostra, inoltre, che l’oleografia, entro i cui confini si vuole racchiudere la cultura napoletana, è assolutamente falsa e fuorviante, visto che Zurzolo e Daniele, Avitabile ed Esposito – ciascuno nei rispettivi campi artistici – sono alcuni tra i pochi artisti che occuperanno, stabilmente, un posto nella cultura italiana del secolo appena passato.
Napoli è stata fucina di talenti straordinari, alcuni dei quali sono rimasti nella stessa città di Partenope, mentre altri – come Daniele – hanno deciso, invece, di andare via fisicamente dal capoluogo campano, anche se non si può mai fuggire dalla terra che ti ha dato i natali.
E Daniele, in particolare, ha sempre conservato un tratto saliente della psicologia napoletana, che lo ha reso grande, finanche oltre gli aspetti meramente tecnici della sua produzione musicale.
Napoli è città dalle grandi contraddizioni, mette insieme ricchi e poveri, prestigio culturale e degrado sociale.
Orbene, Daniele e la sua produzione artistica, davvero ampia, hanno messo insieme gli elementi della contraddizione facendone una ricchezza, per cui, per un verso, il cantautore napoletano è stato un indubbio innovatore della musica leggera italiana, ma – per altro verso – ne è stato il continuatore più sublime, nella misura in cui i suoi ritmi nuovi non hanno mai svilito la portata melodica dei testi e, soprattutto, lo spirito di denuncia sociale, che – in particolare – il primo Daniele recava con sé.
Poi, forse, in un secondo momento della sua carriera, anche lui ha ceduto alle lusinghe del mercato discografico, ma è indubbio che, oggi, i giovani continuano a ripetere i ritmi dei brani di Daniele con lo stesso entusiasmo di coloro che sono cresciuti negli anni Ottanta e Novanta del Novecento.
Peraltro, forse la sua distanza fisica da Napoli gli ha consentito, ulteriormente, di non essere confuso con i cliché sociologici della nuova musica napoletana, quella che agli inizi del terzo millennio è nata intorno ai centri neo-melodici.
Daniele è stato chitarrista straordinario, cantautore originale, voce unica, grande imprenditore di se stesso: virtù, queste, che molto raramente si possono incontrare in un’unica persona e, nonostante tutto ciò, tre anni dopo la sua tragica morte poco o nulla è stato fatto per sottolineare il suo autorevole posto nel contesto dell’arte del Novecento.
Forse, il suo essere partenopeo lo rende debole rispetto alle establishment dell’arte musicale italiana?
O, forse, semplicemente attendiamo che un inglese o uno statunitense venga a spiegarci quanto grande è stato Pino e quanto immortali saranno i suoi pezzi più importanti.
Certo è che un poeta non muore mai e, quando si parla di Daniele, l’espressione “poeta” non è, affatto, abusata.