La difficoltà di una mamma, e di molte altre, nel gestire il lavoro accudendo la figlia malata. Dopo due anni la legge non prevede più agevolazioni.
- Di Ornella Esposito
Quella di Gina e Antonio era una famiglia felice, un po’ rumorosa, forse, per via dei tre figli che inevitabilmente “fanno confusione” quando giocano, parlano, mangiano, vanno a dormire. Insomma, quando fanno il loro mestiere di bambini. Una famiglia normalmente felice, con una casa bella e grande a Varcaturo – a pochi passi dal mare – e la sicurezza di un lavoro stabile di dipendente pubblico, fino al maledetto giorno in cui Gina e Antonio hanno scoperto che la loro secondogenita Alice all’epoca di tre anni, oggi cinque, era affetta da leucemia linfoblastica. È il principio del calvario, ad oggi non ancora finito.
«Tutto è iniziato a metà dicembre 2012 – spiega Gina – con una febbricola che non andava via, e un ingrossamento delle ghiandole del collo. Portai in ospedale la bambina, e mi dissero che erano gli orecchioni, ma la febbre non passava. Ritornai in ospedale, questa volta a quello pediatrico, e mi confermarono la diagnosi di parotite. Alice però non si sentiva bene, dormiva molto, così chiamai la pediatra di base che mi prescrisse delle analisi».
Gina ricorda di aver pensato di stare esagerando. In fondo, due ospedali le avevano dato la stessa diagnosi, forse la sua era troppa apprensione. «Fu mio marito – racconta – che subito dopo l’inizio dell’anno prese la bambina e la portò a fare le analisi».
«Quando le ritirammo – continua – mi fu subito chiaro che c’era qualcosa di problematico, così le portai a vedere alla pediatra la quale mi disse che era necessario un controllo più approfondito, da effettuare al Pausillypon, l’ospedale pediatrico, con cui subito si mise in contatto per il ricovero. Aveva capito la gravità della cosa ma non mi disse nulla, forse, per non allarmarmi».
Così Gina va in ospedale con la piccola Alice pensando che sarebbero ritornate a casa nella stessa giornata, tanto che non si fa accompagnare nemmeno da suo marito. In ospedale i medici le dicono che devono trattenersi, e dopo due giorni arriva la sentenza: leucemia di tipo b, «la più bella» – le dice il dottore – perché è quella che meglio risponde alle terapie.
Gina fa una pausa. Guarda fuori dalla finestra, e mantiene lo sguardo fisso sul giardino mentre le chiedo il suo primo pensiero subito dopo le parole del medico.
«La prima cosa che ho pensato – confessa – con voce tremante – è che Alice mi morisse”. Fa un’altra pausa, questa volta più lunga, mentre la frase sembra rimbombare da una parte all’altra della stanza. «Ma lo sconforto – continua – è un lusso da non potersi consentire perché bisogna affrontare il protocollo di cura, e la mamma è l’unica àncora del proprio figlio».
Gina non può abbandonarsi alla disperazione, né pensare ad altro: alla casa, al lavoro, ai due figli che sono con il papà e con la nonna. All’inizio non riesce a pensare nemmeno alle cause che hanno determinato la leucemia di sua figlia, solo dopo un po’ di tempo riflette sul fatto di vivere in una città interessata da sversamenti criminali di rifiuti tossici e giunge alla conclusione, come molte altre mamme nella sua condizione, e molti dei medici che curano i loro figli e parte della comunità scientifica, che l’inquinamento sia una delle cause determinanti. Gina ha una sola missione: vivere in simbiosi con sua Alice, imparare i termini tecnici, il modo di somministrare le medicine e le reazioni alle terapie, tremende onde d’urto.
Per fortuna ha la possibilità di conservare il suo posto di lavoro perché è dipendente di un ente territoriale, quindi, può usufruire dell’aspettativa retribuita per gravi motivi familiari, per un massimo di due anni, e poi ci sono le ferie e i permessi 104.
«Quando tuo figlio si ammala, gestire il lavoro diventa un dramma, perché devi stare ventiquattro ore su ventiquattro con lui. Non puoi lavorare. Chi ha lavori precari o in aziende private, spesso è costretto al licenziamento. Io sono fortunata ad essere un dipendente pubblico, altre mamme in ospedale sono disperate».
Non si può gestire il lavoro perché le terapie sono lunghe, e a queste si aggiungono molto spesso gli effetti collaterali che prolungano maggiormente i tempi di cura e permanenza nell’ospedale. Infatti Alice e sua madre, non hanno mai smesso di andare in ospedale dal maledetto giorno in cui ci hanno messo piede.
Ma mentre sembrava che la terapia procedesse bene, a luglio 2015 la recidiva. Un fulmine quasi a ciel sereno.
Di nuovo il ricovero, fino a novembre, di nuovo la chemioterapia, di nuovo lo strazio delle sue conseguenze sul corpicino di Alice, di nuovo la disperazione. Il tempo di trascorrere il natale a casa, e poi ancora ospedale per un altro ciclo di terapia.
Ciò che nessun genitore racconta di questa drammatica esperienza è che spesso ci si riduce sul lastrico per curare i propri figli. Tante sono le spese sanitarie da affrontare, soprattutto se hai un reddito, costosi i consulti da pagare ai luminari della materia nella speranza di trovare la cura migliore.
Nel caso di Gina e Antonio, dipendenti pubblici, si potrebbe dire che sono anche fortunati perché uno dei due ha potuto usufruire di tutte le agevolazioni previste dal contratto collettivo nazionale. Ma non basta. Quando hai un figlio, ammalato oncologico, non basta. Gina tra poco terminerà il periodo di aspettativa retribuita, dopo potrà conservare il posto di lavoro, ma senza stipendio.
Al momento non può usufruire delle cosiddette “ferie solidali”, previste dal decreto attuativo del jobs act, che nemmeno a dirlo i suoi colleghi sono già pronti a donarle, perché bisogna aspettare che si riunisca una commissione decentrata per la valutazione del caso. I sindacati hanno promesso di interessarsi della questione.
Al danno la beffa: non solo sua figlia è affetta da leucemia, ma Gina deve fare anche a meno dello stipendio, di vitale importanza in questo momento per far fronte alle tante spese mediche.
«Credo che la legge vada modificata – spiega – prevedendo che il conteggio dell’aspettativa si azzeri ad ogni recidiva. I protocolli delle cure richiedono tempi molto lunghi».
«So che un libero professionista – continua – non ha nemmeno questo vantaggio, ma noi abbiamo due mutui, le utenze fisse, le spese per l’automobile, necessaria, le medicine di Alice che l’asl non ci passa perché abbiamo reddito. Sosteniamo circa 1.300 di spese mensili».
Se poi Gina e Antonio decideranno per il trapianto del midollo di Alice, scelta difficilissima da prendere, dovranno andare a Roma per un bel po’ di tempo ed entrambi rimarrebbero senza stipendio.
Al danno, la beffa delle leggi, spesso lontane dalle perone che invece intendono tutelare.