Che cos’è una favola? Nel linguaggio moderno il termine viene spesso utilizzato per indicare una storia “poco credibile”… Non raccontare favole! Etimologicamente, una favola è un racconto breve, con personaggi più o meno realistici,accompagnata da una “morale”, ossia un insegnamento relativo a un principio etico o un comportamento. Quasi sempre, i destinatari sono i bambini, quegli innocenti che ancora riescono ad emozionarsi, meravigliandosi, ascoltando un racconto, e nei quali le generazioni più adulte ripongono la speranza che gli insegnamenti e le morali vengano raccolte e messe a frutto per un futuro migliore.
Vista con gli occhi di un bambino, anche la realtà devastata – e devastante – di chi vive nella Terra dei fuochi, può essere raccontata da un’altra prospettiva. Una realtà che è stata descritta in tanti modi, per la quale la giornalista Angela Marino ha deciso di utilizzare, per una volta, proprio le parole dei bambini che in questa terra vivono. Nasce così l’idea di “C’era una volta il Re Fiamma”, un libro pubblicato da Round Robin Editrice, nella collana “Fuori rotta”.
“La giornalista campana ha raccolto negli ultimi anni temi e disegni nelle scuole del cosiddetto “Triangolo della morte” della Campania, stando a diretto contatto con insegnanti, genitori e alunni. Dai loro lavori si può capire quanto l’inquinamento, la malattia, la morte siano diventati nella loro immaginazione dei moderni mostri, simili a quelli che nelle favole tradizionali personificano il male. Così i “bambini dei fuochi” si inventano “fatine dei giardini” che per magia riportano l’equilibrio in natura; disegnano verdure animate che si ribellano all’uomo. Una favola che non ha sempre il lieto fine”.
Nel capitolo introduttivo, è la stessa Angela a spiegare com’è arrivata a strutturare l’idea: “Avevo vissuto una vita a Caivano, nella provincia a nord di Napoli, nell’epicentro di quella che chiamano Terra dei Fuochi, un’area vasta a vocazione agricola in cui anni di sversamento illegale di rifiuti tossici hanno trasformato l’ambiente in una camera a gas, in una incubatrice letale, uno spaventoso utero materno che scalda e avvelena, nutre e scortica, protegge e minaccia la vita che custodisce. Un posto in cui la natura si ripiega su stessa, involvendo, accartocciandosi, inghiottendo la vita di piante, animali, persone. La terra del biocidio”.
Ma, spiega sempre l’autrice, prima non si era mai voluta occupare di cronaca “locale”: “Conoscevo il nome di Maurizio Patriciello da molti anni, e lo ricordavo non per quello che è diventato, l’antesignano della lotta contro le ecomafie, ma come il parroco che, già vent’anni prima che fosse pronunciata l’espressione “Terra dei Fuochi”, attirava decine di fedeli ad ascoltare i suoi sermoni; lo sciamano, l’oratore efficace e veemente che affascinava la platea dei fedeli e non solo quella. In pochi anni il parroco venuto da Frattamaggiore ha catalizzato l’attenzione dei media, è diventato la guida della comunità e il volto, onesto e pulito, della Campania che si ribella e denuncia la sopraffazione della malavita, la connivenza delle istituzioni, l’immobilismo. Ma prima di essere quello, era, per me, il prete che aveva partecipato a delle veglie di preghiera per mia madre, ai tempi della sua malattia”.
Poi, nel 2013, Angela si ritrova a fare i conti con una patologia tipica di chi vive in territori con un forte inquinamento ambientale: una tiroidite.
“Da persona sana, eppure sfiorata di striscio da questo vento di malattia, non potevo fare a meno di chiedermi, ad ogni sintomo nuovo, ad ogni dolore o stranezza: “Quanto durerà? Quanto tempo passerà prima che i miasmi che ho respirato e i veleniche ho ingerito compromettano irrimediabilmente la mia salute?”. Mi rendevo conto con sempre maggiore lucidità che la domanda costante era:“Quando?”. Quando mi ammalerò anche io? Quanto tempo ho prima che il periodo di latenza della malattia finisca e si sviluppi dentro di me un cancro? E la tensione diventava attesa. Perché vivere nella paura può essere altrettanto devastante che vivere nella malattia. “Quando sarà successo, non dovrò più temerlo”, era il pensiero che mi accompagnava. Non c’era più spazio per la negazione, a quel punto, anche se continuava a farla da padrona nella coscienza di chi mi stava vicino: familiari, conoscenti, amici. Nessuno in tanti mesi aveva voluto riconoscere il dramma”.
Inizia da lì un percorso di informazione e acquisizione di quella consapevolezza ben nota a chi si scrive di Terra dei fuochi: ti sembra di scoperchiare il vaso di Pandora, di esserti addentrato fra i gironi di un inferno che, a mano a mano, ti portano a sprofondare più in basso, innescando – proporzionalmente alla disperazione che aumenta – rabbia, indignazione e voglia di riscatto attraverso la denuncia, da concretizzare in ogni modo possibile.
“Che ognuno faccia la sua parte, e qualcosa in più”, incita sempre padre Maurizio. Chi sa scrivere, scriva. La Terra dei fuochi è stata descritta in parole, immagini, musica. Tutto, affinchè il resto del mondo prendesse coscienza di quello che avevamo, ignari, si compisse nelle nostre campagne, avvelenando aria, terra e acque nel silenzio complice di chi avrebbe dovuto vigilare.
Il percorso di Angela, insieme al mio e a quello dei tanti impegnati in prima linea, raggiunge il suo apice nel #fiumeinpiena del 16 novembre 2013 a Napoli:
“C’eravamo tutti. Gli attivisti dei comitati, i giornalisti, le famiglie delle vittime, le associazioni. Eravamo in tantissimi a marciare, pacifici, ordinati, sereni, lungo il percorso che da Piazza Garibaldi porta a Piazza del Plebiscito, quel sabato piovoso. C’era chi urlava attraverso un megafono la rabbia di essere stati abbandonati e lasciati a morire da tutti quelli che sapevano. Nonostante la durezza di certe invettive, la rabbia, il dolore, si respirava un’aria di totale comunione. Mi voltavo a guardare e dietro le mie spalle vedevo un’onda di chilometri di persone che sentivano quello che sentivo io, condividevano le mie angosce più profonde, la fatica quotidiana di vivere a queste condizioni. Quel giorno avevo una famiglia di centotrentamila persone. Lì mi sono imbattuta nell’immagine che di quel giorno conserverò sempre. Ai margini del corteo, sotto la pioggia, c’era un bambino con il suo papà; poteva avere poco più di sei anni, indossava una mantellina gialla che lo proteggeva dalla pioggia. Stringeva tra le mani un cartello con la scritta “Muoio”.
Ai bambini che nascono nella nostra terra, noi consegniamo un peso enorme. A chi non sa ancora comprendere cosa sia la vita, dobbiamo spiegare che qui da noi qualcuno l’ha bruciata, la vita.
Da quel momento il bambino con la mantellina gialla è diventato nella mia mente l’immagine della Terra dei Fuochi. Nessuna montagna di ecoballe, nessun rogo,nessun campo di raccolto abbandonato, nessuna delle fotografie che da mesi raccontano questi posti è efficace, immediata, intrisa di un’umanità straziante come questa.
Siamo solo al primo stadio di questa terribile scoperta: il presente. E il futuro? Che ne sarà di noi? Che ne sarà dei bambini? Loro lo sanno? Hanno paura?
Elaboravo queste domande e mi rendevo conto che avrebbero potuto rispondermi solo loro. No, non alle domande sulla loro salute, sulla paura, sulla comprensione di tutta la vicenda. Alla domanda: Che ne sarà di noi?
Nessuno sa emendare la verità dall’ipocrisia e dall’errore come i bambini.
A loro dovevo chiedere. Dovevo lasciarmi alle spalle il passato, la tragedia, i fantasmi della nostra gente che ci accompagnano, muti, ogni giorno della nostra vita e chiedere a loro, se una speranza c’è ancora”.