di Maria Rusolo
“Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.”
Leggendo in questi giorni quanto accaduto a Napoli in merito alla installazione dell’opera di Gaetano Pesce, Tu si’ na cosa grande, ritengo opportuna una riflessione sul ruolo delle città, intese come spazi umani, civili e culturali nell’Italia di oggi. Aldilà dell’opera in questione e della scelta della installazione, ogni segnale che proviene da un artista, a mio modesto avviso, quando viene calato in uno spazio fisico non può in alcun modo essere privato del suo messaggio e di quella che è la storia del suo autore.
Mi chiedo e vi chiedo se bisogna sempre comprendere ciò che ci troviamo di fronte al primo sguardo, se diventa necessario in qualche modo ironizzare sulla sua forma ed espressione estetica o non sia meglio in qualche modo cercare di comprendere la scelta e la volontà di chi ne è autore e di chi attraverso l’arte, in ogni sua forma prova a dare alle città una nuova connotazione anche attrattiva.
Siamo un Paese più legato alle forme classiche, in ogni declinazione, parola, pittura, scultura o musica. Forse tutti dimenticano o non sanno, perché ignorano che Picasso non certamente fu compreso dai propri contemporanei in maniera immediata, così come non lo furono molti impressionisti, o come scioccanti furono le realizzazioni di artisti del calibro di Basquiat o di Pollock; per non parlare della musica jazz o molti anni dopo del rap, considerate forme espressive culturalmente riferibili solo alla cultura degli afro-americani.
Non voglio avventurarmi sulla necessità di amare la cultura in tutte le sue forme, perché essa rappresenta lo spirito del tempo e dello spazio in cui si realizza, ma vorrei che fosse chiaro un concetto fondamentale, e che le città hanno bisogno per sentirsi comunità di uscire dagli stereotipi e dalle ghettizzazioni polverose e che per essere vitali e moderne hanno la necessità di creare una comunità cosciente che si abitui alla bellezza, anche quando essa si esprima in forme non consuete, non ordinarie.
L’estetica, insomma ha bisogno di nuove forme di declinazione, così come una donna non debba dirsi bella o perfetta solo a quando abbia le forme della Venere che sfila per il noto marchio di biancheria intima, anche la città, intesa come luogo materiale ed immateriale non può riposare e sviluppare la propria coscienza solo esaltando le pietre di un passato che è parte di un solo aspetto storico. Noi siamo uomini in divenire, e la modernità risiede nella capacità di dare forma anche a cose che albergano nella nostra coscienza e che si possano leggere in futuro come espressione e segnale dello spirito del tempo in cui furono create.
Le città non sono immobili, perché chi le vive non lo è, perché chi le vive ha la necessità di sentirsi raffigurato in ogni sua colorazione. Io sogno città piene di suoni e di colori, sogno che le opere d’arte raggiungano le masse uscendo dalle sale dei musei, sogno Violetta, struggente che canta per le strade di centri storici fatiscenti ed abbandonati, sogno ballerine che si mostrino nella propria leggiadria ovunque ci sia un passante. Solo così si salva il futuro, solo così si crea una cultura davvero popolare, così si crea una curiosità che vada oltre un like ed una battuta.
“Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.”