Nella sua intervista di ieri a Repubblica, l’ex-Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per la prima volta ha parlato di politica dopo la sconfitta clamorosa al referendum dello scorso 4 dicembre.
La sua analisi, però, ci appare ancora insufficiente.
Egli ammette di aver perso in modo molto netto, così come fece d’altronde, già, subito dopo l’ufficializzazione dei risultati referendari.
Ma, continua a non indagare in modo serio le ragioni di quel netto tracollo, che ha portato il suo Governo a cadere, aprendosi quindi la fase odierna.
È ovvio che, nel Paese, esiste un disagio sociale molto forte da diversi mesi, che ha portato gli Italiani a votare contro l’Esecutivo in carica, a prescindere dal merito del quesito stesso.
È, altrettanto, evidente che questo disagio aveva, già, prodotto i suoi primissimi segnali nel corso del 2015 e del 2016, quando il PD ha vinto le elezioni regionali, nella rossa Emilia-Romagna, con uno scarto minimo e quando, in particolare, nella scorsa primavera ha perso le elezioni amministrative a Roma, Napoli, Torino.
Dopo questi eventi, la Segreteria di Renzi non ha mai aperto un dibattito autentico intorno alle ragioni di quegli eventi, per cui – quasi naturalmente – essa si è avviata alla sconfitta fatale di dicembre.
Peraltro, un segnale di discontinuità, ora, l’ex-Presidente del Consiglio – pure – deve fornirlo, dal momento che, nei prossimi mesi, sono in gioco la conclusione della legislatura ed il conseguente ritorno alle urne, che rappresenta, per Renzi, l’occasione dell’eventuale rivincita.
Ma, in che modo intende presentarsi alle urne Renzi non lo chiarisce.
È pleonastico sottolineare che il diverso sistema elettorale non può che condizionare la differente articolazione del sistema dei partiti: l’eventuale adozione del proporzionale, piuttosto che del maggioritario, non può che influire, in un modo piuttosto nell’altro, nella definizione delle alleanze.
Alla sinistra del PD, infatti, sta nascendo un nuovo blocco partitico, che potrebbe, in caso di determinazione della leadership di Pisapia, l’ex-sindaco di Milano, divenire la stampella del partito renziano.
Ma, i quesiti non mancano.
Si continuerà sulla medesima politica economico-sociale di questi ultimi tre anni, che non ha prodotto effetti positivi?
Ed il referendum abrogativo sui voucher, previsti dal Jobs Act, in che modo influirà sui nuovi orientamenti del Governo Gentiloni?
È, infine, ovvio che, all’interno del PD, la guerra intestina, che si è scatenata dopo il referendum, non potrà che accelerare il processo di rinnovamento della Segreteria Nazionale del PD, ma basterà a Renzi sostituire qualche delega per poter avere il saldo controllo del suo partito e per tranquillizzare le correnti, che animano il dibattito pre-congressuale?
Quesiti, dunque, non da poco, che però mettono in luce come il futuro di Renzi e della sua corposa corrente sia un’incognita, su cui non pesa in maniera irrilevante l’incertezza in merito alla data dello scioglimento delle Camere, che solo il Capo dello Stato può decidere in piena autonomia, pur dopo aver ascoltato i partiti presenti in Parlamento.
Quindi, una primavera burrascosa aspetta il leader del PD, che si gioca, nella partita in corso, non solo il controllo della sua formazione, ma il suo stesso futuro nelle istituzioni repubblicane.