Le immagini hanno una potenza di gran lunga maggiore delle parole; in certi casi restano impresse nella nostra mente per sempre, specialmente quelle che ritraggono il dolore e la disperazione. Molti porteranno nel cuore e nella mente il visetto del piccolo Loris, strangolato ad appena otto anni , sembra, e questo appare inaccettabile, dalla sua stessa madre. Le sequenze che riguardano Veronica, la giovane mamma siciliana, rappresentano due momenti vissuti da un’anima tormentata, che ha tentato due volte il suicidio; prima un viso come stravolto dal senso di colpa, per niente somigliante a quello di una madre che ha perso il figlio, quasi non reggeva lo sguardo delle persone, comunicando con il viso girato di lato, a voler evitare gli sguardi. Poi il dolore quasi gridato, tra i due carabinieri, il passo incerto di una persona travolta dal suo destino. Questo diverso atteggiamento di Veronica lo abbiamo notato dopo che i primi sospetti hanno iniziato a serpeggiare, dopo che le telecamere sparse in tutto il piccolo paese del ragusano la inchiodavano alle sue responsabilità, quando il misero castello di bugie è franato: il bambino mai accompagnato a scuola, il suo passaggio in macchina , registrato da impietose telecamere, nel luogo dove successivamente è stato ritrovato il cadavere di Loris, le fascette simili a quelle usate per strangolare il bambino consegnate alle maestre, lo zainetto mai ritrovato, un buco di alcuni minuti che Veronica non ha saputo giustificare. Infine lo spiegamento di forze dell’ordine che ha prelevato l’indagata e il marito dalla loro abitazione, le sei ore di interrogatorio da parte del questore Petralia, ma nessuna ammissione.
Avrebbe fatto, secondo gli inquirenti, tutto da sola. Certo non poteva avere dei complici; in questi casi una madre che uccide il proprio figlio è come se uccidesse sé stessa. Un odio talmente grande maturato verso la sua persona che l’ha portata , per ben due volte, a compiere tentativi di suicidio, un autolesionismo della propria follia portato alle estreme conseguenze. Cosa c’è di peggio per una madre, fragile e malata, che veder morire il proprio figlio? Se una persona squilibrata vuole infliggere a sé stessa una punizione orribile, quella della morte di suo figlio è sicuramente la peggiore.
Un libro memorabile del 2003, scritto da Daniel Goleman con la collaborazione del Dalai Lama, edito da Mondadori, che tutti dovrebbero leggere almeno una volta, sostiene che comprendere la rabbia e l’origine della crudeltà umana non è facile, Goleman le chiama “ emozioni distruttive”, in riferimento a ciò che causa danno a noi stessi e agli altri. Questo in Occidente. Nella visione orientale, secondo il Dalai Lama, non si parla solo di danno fisico, ma sostanzialmente di “ squilibrio”; quest’ultimo finisce per influenzare negativamente tutto il nostro agire, portando le persone a compiere atti inconsulti. Nel libro si chiamano “ i veleni della mente”, e fino a che punto possano portare le persone, purtroppo, lo scopriamo sempre più spesso in atti di violenza cieca che ci sembrano inspiegabili. Ma purtroppo anche l’atto più crudele ha sempre un radice, da andare a ricercare nei meandri più bui della mente.