Matteo Renzi è a un passo dal traguardo. La minoranza del suo partito è nella bufera. Si assiste ad una manovra preventiva per assicurarsi il varo della legge elettorale cosi com’è adesso in commissione, prima della prova decisiva in aula. Le preferenze, la riduzione dei nomi nei listini i nodi più intricati da sciogliere.
E’ chiaro come il sole che i parlamentari, che continuamente fanno finta di dimenticare i loro schieramenti per arginare il pericolo del ritorno alle preferenze, agiscono mossi da un istinto primario: non perdere il posto, non permettere che i “peones” che lavorano sui territori possano diventare dei pericolosi concorrenti.
Si comportano come un’oligarchia abbarbicata ai propri privilegi, un clan di amici che tratta i luoghi della rappresentanza politica come fossero club esclusivi in cui tenere alla porta gli “estranei”.
Solo che la tessera di quel club non è stata conquistata per meriti particolari, bensì solo per cooptazione dettata dalla consuetudine. Ecco perché qualunque obiezione alla reintroduzione delle preferenze non può che essere messa a tacere di fronte all’arroganza di chi con una serie di pannicelli caldi (il listino, il numero marginale di beneficiari) vuole perseverare nella scelta di una classe politica che boccia ogni appello al merito, all’impegno, al talento e alle capacità.
Non dicono: è giusto che siedano in Parlamento i più bravi e i più meritevoli. No, hanno detto: è giusto che siedano in Parlamento quelli che ci sono sempre stati, quelli che tradizionalmente hanno sempre occupato quei posti.
Eppure, da qualche parte, questo discorso del merito dovrà pure essere affrontato, questa dimensione della capacità, della tenacia. Senza fare un elenco interminabile di nomi di “eletti” che negli anni non hanno prodotto assolutamente nulla, basti ricordare che gli stessi siedono a Montecitorio o a Palazzo Madama da diverse legislature senza avere mai raccolto uno sputo di preferenza.
Per un cenno storico significativo, si pensi a un politico come la Merkel che non ha mai avuto bisogno di quote o corsie preferenziali. In un passato un po’ più remoto, non ha percorso strade già tracciate nemmeno la Thatcher. Mentre listini bloccati e rendite di posizione hanno “aiutato” politici che senza questi arnesi non avrebbero mai varcato la soglia di nessuna delle due Camere.
Ma il problema principale è chiaramente strutturale. C’è bisogno di partiti che mettano in campo strategie nuove: scuole di formazione ai propri iscritti, democrazia all’interno delle proprie strutture, nelle quali un militante possa avere la certezza delrispetto della meritocrazia e della premialità all’impegno e alle capacità di ogni singolo membro. Il nodo principale non va individuato nelle difficoltà che si vengono a creare per i piccoli partiti: sono fermamente convinto che la politica debba trovare una nuova strada e sapersi organizzare per servire il Paese e non per sopravvivere a se stessa.
Il ritorno alle preferenze, un premio di maggioranza al 40 per cento e l’equiparazione della soglia di sbarramento per tutti i partiti ( non è giusto dimezzare il voto dei cittadini che scelgono una formazione che si presenta al di fuori delle coalizioni), possono traghettare il Paese fuori dalla palude nella quale le istituzioni tutte rischiano di logorarsi in modo irreversibile.
Purtroppo, l’evoluzione (?) della politica ha favorito lo sviluppo di un nuovo modello di partito. Ne consegue che i partiti maggiori ( il Partito democratico e Forza Italia) – piuttosto che competere apertamente ricorrono continuamente a trasversalismi e forme di consociativismo che assicurano l’autoconservazione. La prevedibilità delle competizioni elettorali( con questo tipo di riforme) tende a favorire una elite non legittimata dal voto popolare e tendente a penalizzare i partiti outsiders. Tutto questo è percepito negativamente dai cittadini, e spiega la diffusione del sentimento antipartitico ormai virale nell’ opinione pubblica.