di Mariavittoria Picone
Non amo l’estate, l’ho scritto più volte, offre l’alibi alla volgarità, alla sciatteria e alla sbruffoneria, ci illude di saper essere liberi e forti, scopre i sentimenti e poi li brucia.
Visione catastrofica, sembrerebbe, ma non lo è. Ho l’età del ripasso dei ricordi, del nastro da riavvolgere, dopo il giro di boa, chiamarla seconda opportunità sarebbe banale e consolatorio, ergo, lontano dalle mie intenzioni di scrittrice ironica e spietata. No, io non sono l’estate, non fornisco alibi a nessuno, sono come l’autunno, che lascia fare, che asseconda e attende i benefici della fine della calda stagione, il ritorno alla sobrietà, ai toni più bassi; sono come un quaderno, un diario segreto in cui si scrive l’inconfessabile: il sottile piacere di essere come gli altri.
Ho compreso con gli anni che non sappiamo essere liberi, invochiamo l’estate, le vacanze, perché consapevoli della loro breve durata, ci piace il tempo determinato, amiamo le scadenze, i per sempre sono una bugia, non perché non esiste qualcosa di eterno, anzi, proprio per il contrario: tutto è interminabile. I sentimenti, le persone ci sono o non ci sono e il tempo non esiste, chi c’è, c’è sempre stato e niente scompare, cambia solo il modo in cui guardiamo ogni presenza e ogni assenza. La vita scorre tra incanto e disincanto e il tempo lo usiamo per misurare il valore delle emozioni, per cercare di catalogare le vibrazioni.
Esiste un tempo meteorologico, un clima, una temperatura che ci obbliga a sospendere il lavoro, a spostare il corpo in altri luoghi, a credere di essere capaci di vivere un’altra vita.
Non siamo, però, Adriano Meis, siamo piuttosto dottor Jekyll e mister Hyde e non abbiamo alcuna intenzione di rinunciare a una delle due personalità.
In realtà, manca poco meno di un mese alla fine dell’estate, c’è ancora da fare e disfare, da rimpiangere e desiderare, c’è ancora tempo.
A queste deliranti riflessioni, però, ho bisogno di fornire una spiegazione, ovviamente romantica.
Se siete arrivati fin qui, nella lettura di quest’articolo, vuol dire che siete curiosi di conoscere la chiosa, vi aspettate qualche bella parola, un motivo per sorridere, una sorpresa. Non c’è.
C’è la consapevolezza che tutto si spiega con l’amore, tutto passa attraverso la riscoperta dell’amore per chi ci sta accanto, per chi abbiamo lasciato andare, per chi stiamo aspettando e per tutti quelli che già ci sono, in modo discreto.
L’estate ci ricorda l’appartenenza, a un luogo, a una persona, ci svela i posti in cui sono agganciate le nostre ancore.
Abbiamo faticato un anno intero per scoprire che abbiamo quello che vogliamo e qualcosa di nuovo che ci manca.
I paesini, che da un po’ abbiamo preso a chiamare borghi, indistintamente e in modo ruffiano, tornano a respirare, dopo la ritirata dei turisti, nuovamente svuotati, confusi e felici.
Le città riprendono a offrire l’impietoso anonimato, che rieduca e ridimensiona l’ego.
Il ventisette agosto si toglieva la vita Cesare Pavese, proprio per suggellare la “bella estate”, lui che non ha mai imparato questo mestiere di vivere.
Noi, purtroppo e per fortuna, non siamo neanche Cesare Pavese, ci accontentiamo di non aver lavorato per un po’, di aver visto luoghi o visi nuovi e di essere un po’ abbronzati.
Siamo forse, senza poesia, più vicini a Renato Zero, che riassumeva l’estate così:
“Un’altra estate qui e un’altra volta qui, più disinvolta e più puttana che mai. Mille avventure che non finiranno se per quegli amori esisteranno nuove spiagge…”